venerdì 12 dicembre 2014

La crisi non molla Servono statisti non «capipopolo»

Il 12 agosto, in un intervento pubblico, il premier, Matteo Renzi, ha dichiarato: «L’Italia è in una situazione drammatica, ma possiamo farcela». La situazione è, dunque, difficile e pericolosa; potrebbe finire anche tragicamente, ma non dobbiamo perdere la speranza. Grosso modo le parole di un medico, che curando un paziente in condizioni gravi e di pericolo, non nasconde la drammaticità del momento, ma conforta i familiari, dicendo che la speranza non deve andare perduta, giacché lui stesso resta fiducioso.

Il dramma troverebbe sintesi nel concretarsi di una condizione di deflazione, ossia: una generalizzata tendenza dei prezzi a flettere. Quando tale sia l’orizzonte economico: sono differiti i consumi in beni durevoli; cala la propensione agli investimenti di impresa; aumenta il peso dei debiti, per chi è ricorso al mercato del credito; i saggi di interesse, ancorché nominalmente molto bassi, possono essere alti in termini reali; i risparmiatori inclinano a divenire rentiers e investono in titoli del debito pubblico; divengono alquanto privilegiati, ma esuberanti come numero, i dipendenti della pubblica amministrazione, garantiti dal posto fisso; e via elencando. In breve: la deflazione si congiunge con un’alta avversione al rischio. Per questo fa scattare il segnale di pericolo. I governi sono allora propensi: a nuovi investimenti pubblici finanziati in disavanzo; a concedere incentivi per nuovi investimenti di impresa; ad allentare i vincoli burocratici; a rendere molto flessibili i contratti di lavoro; a sollecitare la politica monetaria verso scelte così dette «accomodanti», sperando che riprenda un’inflazione, sia pure molto contenuta; a stimolare investimenti esterni e a importare risparmio meno avverso al rischio; a un controllo più rigoroso per contenere la spesa pubblica corrente; e così via.

Resta da capire se tutto ciò sia possibile al governo italiano, al presente. La risposta affermativa è tutta collegata con l’attuazione di riforme strutturali, che per ora hanno difficoltà ad essere approvate dal Parlamento, e che potrebbero richiedere anche qualche trasferimento di sovranità all’Europa.

Certo, potremmo farcela! Non, tuttavia, in virtù di una distribuzione «a pioggia» di un bonus mensile di 80 euro o a motivo della approvazione in prima lettura della riforma del Senato. Non invocando che la Commissione di Bruxelles concordi su nuova spesa pubblica in disavanzo sul fondamento di riforme strutturali solo indicate come buone intenzioni.

Insomma, la crisi si supera e dal pericolo ci si allontana premettendo gli interessi generali del Paese a quelli elettorali della propria parte politica. Secondo esperienza, agendo da statisti e non da capi-popolo. Questo è il problema: direbbe Amleto!

Tancredi Bianchi

L'Eco di Bergamo, 13/12/14

mercoledì 26 novembre 2014

L'astensionismo alle regionali? E' il fallimento del federalismo



http://www.tubechop.com/watch/4217119

A La Gabbia del 23/11/14 si commentano i dati freschissimi della scarsa affluenza alle elezioni regionali in Emilia-Romagna (39,96%, elezioni precedenti 64,93%) e Calabria (44,08%, elezioni precedenti 59,26%).

Il conduttore Gianluigi Paragone mi dà la parola ed esprimo il mio "pensierino della sera". Il tutto sotto l'occhio attento della Viviana Beccalossi, Assessore al Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo della Lombardia.

lunedì 3 novembre 2014

Lo Stato dei diritti negati: lavoro, casa, dove siete?



http://www.tubechop.com/watch/3887170

Ospite tra il pubblico a La Gabbia del 2/11/14, il conduttore Gianluigi Paragone mi dà la parola sui dirittti negati: lavoro e casa, con un occhio alle fasce sociali più deboli, quelle che sembrano invisibili agli occhi dei più.

sabato 25 ottobre 2014

Se Renzi si salda con Silvio (attenti a quei due)

SE BERLUSCONI DA' VIA LIBERA ALLE ELEZIONI VOLUTE DA RENZI ANDIAMO VERSO UN BIPOLARISMO “STRABICO”  

Se fosse vero che il recente risveglio di Berlusconi dopo mesi di letargo politico – “io non mollo e se torniamo in piazza possiamo vincere, anche da soli” – dipende dai disastrosi sondaggi che gli hanno fatto vedere, in cui Forza Italia sarebbe precipitata sotto il 12% e si appresterebbe a perdere pesantemente le prossime amministrative, si tratterebbe della miglior conferma che prende sempre più corpo l’ipotesi delle elezioni anticipate. Finora, infatti, la percezione che tutto congiurasse per chiamare gli italiani alle urne al più presto, la davano i comportamenti di Renzi. Per esempio quel cercarsi continuamente un nemico elettoralmente utile – i sindacati per l’opinione pubblica moderata, Confindustria e i poteri forti per quella progressista, ora l’Ue che entusiasma gli uni e gli altri – o fare scelte che fossero altrettanti richiami di consenso vasto (l’articolo 18 a destra, gli 80 euro a sinistra). Così come le forzature dentro il Pd, le comparsate televisive, la convocazione dell’ennesima Leopolda.

Ora, però, è l’avversario-amico di Renzi a dar corpo all’ipotesi che si vada presto a votare. Ormai lo conosciamo, Berlusconi: quando sente odore di competizione elettorale si rimette in pista, lancia segnali rassicuranti sulle sue intenzioni, riaccende vecchie polemiche. Si dirà: ma come, fino a ieri sembrava dirci che vedeva in Renzi la sua continuità, e ora, di colpo, proprio mentre la sua scomparsa dalla scena politica – sostituito da improbabili comparse – gli procura un vistoso (e ulteriore) calo di consensi, si prepara al voto? Sì, è così, e non c’è contraddizione tra le due cose. Perché Berlusconi non ha alcuna intenzione – né possibilità, peraltro – di insidiare il giovane Matteo. E più passa il tempo, e peggio sarà. Dunque, se Renzi sente l’esigenza di trasformare il suo livello di consenso popolare in forza parlamentare a lui vicina – rispetto ad ora in cui, pur avendo conquistato palazzo Chigi e il partito, controlla poco dei gruppi, specie al Senato – perché Berlusconi dovrebbe impedirglielo (ammesso e non concesso che ne abbia realmente le possibilità)? Qualcuno sussurra che il fondatore di Forza Italia avrebbe sentore che il presidente del Consiglio lo voglia fregare, disattendendo il cosiddetto patto del Nazareno. E allora? Intanto se c’è un motivo per cui Berlusconi considera Renzi un se stesso con 40 anni di meno è proprio per la sua spregiudicatezza. Dunque certo non se ne meraviglia. Ma poi, ciò che più conta, è che in cambio della sua “non opposizione”, il vecchio Berlusca non ha nessuna contropartita politica da chiedere, ma solo la salvaguardia della sua persona, della sua famiglia e dei suoi interessi economici. E sa – perché così farebbe anche lui a parti rovesciate – che Renzi lo tutelerà solo nella misura in cui, e fino a quando, quel drappello di parlamentari azzurri gli sarà funzionale.

Certo, le elezioni anticipate interessano a Renzi, non a Berlusconi, e quel presidio parlamentare forzista con il voto non potrà che diminuire. Ma qual è l’alternativa? Nessuna. Senza contare che il successo con cui Salvini sta operando la trasformazione della Lega da partito localista a partito ultra-nazionalista (e quindi nazionale) anti-euro, rischia di togliere altra acqua al bacino già sempre più ristretto di Forza Italia. Dunque, nelle prossime settimane siamo destinati ad assistere ad un ritorno sulla scena di Berlusconi non per tentare l’impossibile recupero, ma per rinnovare il patto con Renzi subito dopo le elezioni. A questo fine, l’accordo sulla legge elettorale si troverà, avendo entrambi la convenienza a sancire la vittoria di Renzi con un premio di maggioranza e a tutelare Berlusconi con uno sbarramento alto in modo da far fuori Ncd e i residui centristi, e impedire nuovi ingressi sulla scena. Già, invece della Terza Repubblica, stiamo sperimentando una sorta di “bipolarismo strabico”, in cui è già deciso chi sta in maggioranza e chi fa l’opposizione, avendo entrambe le parti pieno interesse a rivestire quei ruoli. In questo senso, vale il raffronto tra il Pd renziano e la vecchia Dc che ci siamo permessi di avanzare in questo spazio.

Uno che se ne intende come Marco Follini, ha scritto su Europa che in realtà la somiglianza è labile, perché la Dc aveva scelto la politica di coalizione (anche quando non aveva bisogno, come dopo il voto plebiscitario del 1948) perché non si fidava della possibilità egemonica, avendo coscienza dei propri limiti, mentre Renzi è un solitario a vocazione maggioritaria che il sistema delle alleanze lo rifiuta per principio. Ora è vero che Renzi non è né De Gasperi né Moro, così come è vero, però, che in giro non ci sono né i La Malfa né i Craxi. Ma, soprattutto, questa è una fase storica in cui il Paese è così arrugginito da richiedere prima di tutto un’azione di smontaggio dei sistemi e delle logiche che hanno permeato la Seconda Repubblica. Resta comunque il fatto che il Pd, così come allora la Dc, si è piazzato al centro del sistema politico, occupandone quanto più possibile gli spazi tanto a destra come a sinistra. E così facendo non può che uccidere il bipolarismo, che per definizione richiede che ci sia una sinistra e una destra in competizione tra loro. Esattamente come era nella Prima Repubblica, in cui c’erano predefiniti sia il partito di maggioranza (seppure relativa e dotato di alleanze) sia quello di opposizione.

È un bene o un male per il Paese? Per chi, come noi, ha difeso il sistema proporzionale dal pubblico ludibrio cui è stato sottoposto, e ha criticato il bipolarismo non solo per la versione armata (pro-contro Berlusconi) con cui è stato attuato in Italia, ma in assoluto come sistema non adatto al dna italico, sarebbe facile rispondere che è un bene. Ma attenzione: noi vogliamo costruire la Terza Repubblica, non riedificare la Prima. E dunque sarà bene tornare a ragionare su che razza di sistema politico stiamo andando incontro.

Enrico Cisnetto
Terza Repubblica

sabato 11 ottobre 2014

Pd stai sereno, ci pensa Renzi

È VENUTO IL MOMENTO
DI “ROTTAMARE” IL PD
ULTIMO BALUARDO
DEL VECCHIO SISTEMA

 Sull’articolo 18 le componenti del Pd ostili a Renzi hanno tirato la corda ma non fino al punto di romperla. Tardi, ma appena in tempo, si sono accorte che a strappare gli avrebbero fatto un piacere grande come una casa. Ma cosa faranno di fronte alle prossime provocazioni – che, statene certi, arriveranno presto e ancora più forti – del premier? Se, per esempio, il governo proponesse l’invio di un paio di Tornado a far la guerra all’Isis, resisterebbero alla tentazione di far scoppiare una rissa parlamentare che potrebbe anche avere come esito quello che stavolta è stato evitato?

A noi i partiti liquidi non piacciono, ma veder liquefare il Pd ci piace, e molto. Ma come, si dirà, siete contro i “non partiti” e poi volete che si dissolva l’unico soggetto politico che ha le caratteristiche del partito di massa, o comunque che ne ha conservato le sembianze? No, non c’è contraddizione. Intanto perché il Pd partito vero non lo è mai stato. Ricordate il momento della fondazione nell’ottobre del 2007? Veltroni fu eletto segretario non dal congresso ma dall’assemblea costituente del Pd, un organismo, composto da 2.858 persone, figlio delle nomenclature di Ds e Margherita. E sapete quando si tenne la prima assise congressuale, chiamata chissà perché “convenzione”? Due anni dopo, l’11 ottobre 2009, quando Veltroni si era già dimesso, sostituito da Franceschini, e il governo Prodi era caduto. Nel frattempo hanno inventato le primarie aperte a chiunque, che significa azzerare – anzi, mortificare – il ruolo dei tesserati. E un partito senza iscritti non è un partito. Non è un caso se in coincidenza con il quasi 41% delle europee, cioè il miglior risultato elettorale mai conseguito dalla sinistra (pur in percentuale e non in numero assoluto di voti), si registra il numero minimo di aderenti (100 mila contro il mezzo milione della segreteria Bersani).

Il secondo motivo per cui siamo spettatori plaudenti della parabola “morente” del Pd – sì, è una parola forte, ma la usiamo a ragion veduta – è perché esso contiene ancora tutte le ambiguità insite nel claudicante processo di trasformazione del Pci – che non ha mai metabolizzato fino in fondo il comunismo, tant’è che dovette aspettarne la formale caduta a Berlino come a Mosca per distaccarsene – cui si sono aggiunte le fragilità culturali e politiche della sinistra cattolica e la marginalità delle componenti laiche. Chiudere con il passato in modo definitivo, dunque, gioverebbe alla stessa sinistra, che potrebbe rinascere su basi più moderne.

Infine c’è un terzo motivo per cui guardiamo a quel che accade dentro il Pd con la speranza di chi avendo come propria ragione sociale la nascita della Terza Repubblica, auspica che si chiuda definitivamente la sciagurata stagione politica apertasi nel 1994. Suo malgrado, Renzi ha il merito di aver sepolto il bipolarismo bastardo su cui si è retto il gioco politico di questi vent’anni e a cui gli italiani hanno guardato – sbagliando – come al salvifico sistema che avrebbe rilanciato il Paese debellando la corruzione. Come sia andata, oggi non c’è bisogno di dirlo. Ora, l’irruzione sulla scena di Renzi, pur tra mille contraddizioni, ha consentito di archiviare entrambi i poli: il centro-destra si è liquefatto, del centro-sinistra è rimasto solo il Pd, che a sua volta si sta liquefacendo. E tutto questo è un bene, perché prima consegniamo alla storia (si fa per dire) la Seconda Repubblica e meglio faremo nel comunque difficile compito di uscire dal declino e far rinascere il Paese. Da questo punto di vista, Berlusconi non è più e mai più sarà un problema. Anche perché sembra essere tornato all’idea iniziale di quando, nel 1993, architettò la sua “discesa in politica” e certo non si attendeva il successo e le responsabilità del 1994: a lui basta un manipolo di parlamentari che gli consentano di tutelare se stesso e i propri interessi. Diverso è invece il Pd, che pur avendolo eletto segretario considera Renzi un corpo estraneo e ha una gran voglia di espellerlo per poter tornare come prima. Ma i rapporti di forza sono rovesciati, è Renzi ad avere il coltello dalla parte del manico. Ed è bene che lo usi come un macete. Anche perché non riuscirà mai a farlo suo, il Pd. E quindi tanto vale che lo “superi”. Come questo avverrà è dettaglio di cronaca, che sia nelle cose crediamo non ci siano più dubbi.

Fin dal primo momento, abbiamo detto che Renzi ci sembrava forte nella parte destruens e debole in quella costruens. Dunque non ci aspettiamo che sia lui – se poi invece lo fosse, tanto di guadagnato – l’architetto della Terza Repubblica, cioè di un nuovo ordine politico e di più moderni assetti istituzionali. Tant’è vero che quando si è mosso su questi terreni, dalla legge elettorale fino alla boiata della riforma del Senato, lo ha fatto molto maldestramente. Ma ci aspettiamo invece che sia pienamente capace di dare sepoltura al vecchio sistema. Sì, certo, avendola presa, quest’opera di rottamazione, prima di tutto dal lato delle persone, e con modi spicci, un po’ è sgradevole. Ma, si sa, la politica non è un “tea delle cinque”. Dunque, il rottamatore vada fino in fondo. Poi ne riparliamo.

Enrico Cisnetto
Terza Repubblica

mercoledì 8 ottobre 2014

Marchionne maestro nell'uso degli aiuti di Stato, di qua e di là dall'oceano



http://www.tubechop.com/watch/3706391

Nella puntata de La Gabbia del 5/10/14 Gianluigi Paragone modera il dibattito su Marchionne e il modello-Fiat. Intervengo per ricordare con quali soldi (pubblici) il manager eroe dei due mondi manda avanti la baracca, di qua e di là dall'oceano. All'ubiquo Mario Adinolfi che mi dà sulla voce preciso che gli aiuti di Stato americani sono serviti a salvare i posti di lavoro della Chrysler negli Usa, non certo quelli della Fiat in Italia che sono a rischio.

Ecco il mio live-tweeting dallo studio de La Gabbia (con una piccola spiegazione finale anche per l'On. Emanuele Fiano del Pd ospite in studio, anche lui alquanto fiatofilo):