giovedì 3 ottobre 2013

#Lampedusa, l'#Europa non puo' negare asilo politico

«La fuga dalle torture in Ciad La Libia, il mare e poi l'Italia» Moussa, a 17 anni, scappato dalla guerra: non so niente dei miei cari. Sidik dal Sudan su un barcone: rotto il motore, in balia delle onde.

Laura Arnoldi, L'Eco di Bergamo 4/10/13

La paura Moussa l'ha ancora negli occhi, nonostante sia in Italia dal 13 agosto 2011, arrivato a bordo di un barcone partito dalla Libia. Alle spalle si è lasciato la prigione, i ribelli, un Paese – il Ciad – in cui non può tornare. In Italia ci è arrivato per caso: non l'ha scelta come meta del suo viaggio. «Io non conoscevo l'Italia – dice –, ero solo stato in Africa». Il giovane è uno degli oltre trecento profughi accolti dalla Caritas diocesana bergamasca nell'ambito del progetto biennale di accoglienza per l'Emergenza Nord Africa. In viaggio dal Ciad all'Italia Moussa Barko Sidik ha più o meno 22 anni: «Non conosco esattamente la mia età – dice –: in Ciad abitavo in campagna e non si viene registrati». Sarà per questo che conserva con tanta cura il tesserino di identità che ha ricevuto al suo arrivo a Lampedusa: «È tutto rovinato, ormai. Non vale più, ma lo tengo sempre con me». Lo toglie dal portafoglio, lo mostra e si percepisce che per lui ha un valore immenso. Rispetto a un qualsiasi coetaneo Moussa ha vissuto esperienze terribili. Ha più volte rischiato di morire. Diventa adulto in fretta quando nel 2008 entra nelle truppe dei ribelli: «Combattevamo contro il governo». A quel periodo risalgono le cicatrici che ha sul corpo: «Una bomba è scoppiata e mi sono bruciato», mentre parla si tocca il petto e il volto. Viene catturato dalla polizia, portato in prigione. Erano in cinque: uno viene ucciso subito al momento dell'arresto perché ha con sé dei documenti dell'esercito ribelle, un altro muore dopo che gli agenti, che torturavano i prigionieri, gli tengono la testa sott'acqua. Così appena possibile scappa dal carcere: «Il soffitto era una gabbia di metallo, ma non molto forte e duro». Si nasconde da un parente che lo ospita per un mese e alla fine gli dà il denaro sufficiente per lasciare il Ciad. «Ho passato la frontiera e attraversato il Niger su un'auto. Eravamo in più persone che non conoscevo». Il mezzo dopo qualche giorno giunge a Tripoli («Durante il viaggio stavo male, avevo la febbre, non ricordo bene cosa è successo») e qui si imbarca. «Siamo rimasti in mare per tre giorni, avevo paura, la barca era piena, con centinaia di persone, non ci si poteva muovere. C'era gente dal Ghana, dal Niger, dalla Somalia, dall'Etiopia. Non avevamo né acqua, né cibo, non c'era un bagno. Io ero seduto vicino al motore. Il rumore era forte e la testa mi faceva male». All'arrivo i migranti hanno trovato accoglienza sull'isola siciliana e Moussa ha avuto il suo primo documento: «C'erano le ambulanze per chi stava male. Non sapevo di essere arrivato in Italia. Non conoscevo nemmeno una parola. Non avevo pensato a dove andare. Volevo solo salvare la mia vita». Ora il giovane ha un permesso di soggiorno «politico» valido fino al 2017, concesso a chi necessita di alta protezione, ma non è ancora tranquillo: «Continuo a pensare alla mia famiglia. Mio fratello da anni è in prigione perché si è opposto al regime, i miei genitori sono rimasti senza nulla. Tempo fa la casa è bruciata. Vorrei aiutarli». Per questo ci vuole un lavoro: il ragazzo ha studiato italiano e seguito un corso per pizzaiolo, ma un'occupazione non l'ha ancora trovata. Ha anche un altro desiderio: «Vorrei cancellare la cicatrice dalla mia faccia» sia perché gli dà fastidio, sia perché «se torno in Ciad tutti capiscono che sono stato tra i ribelli e per me è finita». «I morti li buttavano in acqua» Sidik Farah invece non ha alcuna speranza di tornare in Sudan: «Non ho più nulla». Un fratello è morto, altri familiari sono forse nei campi profughi del Darfur, di loro non sa nulla da molto tempo. Chissà, forse anche loro lo credono morto. L'uomo, che ha ora 33 anni, nel 2001 va in Libia in cerca di lavoro. Lì per 8 anni fa il saldatore. Poi scoppia la guerra: «Vivevo vicino a una caserma; un giorno viene bombardata; così dobbiamo scappare». Nel suo caso è la polizia libica che raduna le persone, gli stranieri e li fa imbarcare. «Ci spingevano tutti colpendo con i manganelli. Io non ho pagato per partire. Non avevo nulla. Solo i vestiti che indossavo». Sulla barca rimane sei giorni con altre 300 persone. «Siano rimasti fermi in mezzo al mare, perché il motore si è rotto. C'erano donne, bambini. Niente acqua, niente cibo. Qualcuno piangeva o si lamentava. Cinque persone sono morte. Sono state buttate in mare. Un bimbo e la mamma no, sono rimasti sulla barca fino all'arrivo». Il rottame con il suo carico umano riesce ad arrivare al porto. «Paura? No. Anche con la guerra o quando sono arrivato, mi sono sentito tranquillo» dice Farah con un fatalismo proprio di chi non ha nulla da perdere. Lui sa che nel suo Paese non tornerà, non gli sarà possibile. A Bergamo non ha perso tempo: ha studiato la lingua, ha frequentato due corsi per saldatore e cerca un lavoro: «Sappiamo che sono tempi difficili per tutti» conclude, mostrando di desiderare solo una vita «normale» e che migrare non è stata una scelta libera, ma una necessità «per la guerra». «Io non avevo alternative: non potevo tornare in Ciad, mi avrebbero imprigionato, in Libia c'era la guerra. Sono partito per salvarmi» ripete Moussa.

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