domenica 25 agosto 2013

allo Stato serve lo spesometro

Spesa pubblica record: più 69% in quindici anni Mestre (Venezia) Il Centro studi della Cgia di Mestre ha calcolato che dal 1997 a oggi la spesa pubblica, al netto degli interessi sul debito, è aumentata del 68,7%. In termini assoluti è cresciuta di quasi 296 miliardi. Alla fine del 2013 le uscite, sempre al netto degli interessi, ammonteranno così a 726,6 miliardi. Per contro, le entrate fiscali che comprendono solo tasse, imposte, tributi e contributi pagati dagli italiani, sono cresciute del 52,7%. A fronte di un aumento di 240,8 miliardi, il ammonterà 2013 nel complessivo gettito considerato l'incremento è stato del 58,8%, ma se analizziamo il trend delle tasse locali ci accorgiamo che sono praticamente «esplose»: più 204,3% (pari, in termini assoluti, a +74,4 miliardi di euro), con un gettito che nel 2013 sfiorerà i 111 miliardi. Quelle centrali, invece, sono incrementate «solo» del 38,8% (pari a +102,6 miliardi in valore assoluto), anche se nel 2013 le entrate di competenza dello Stato ammonteranno a ben 367 miliardi di euro. Tutti gli importi, sottolinea ancora la Cgia, sono a prezzi correnti, includono, cioè, anche l'inflazione. In linea generale lo studio afferma che lo scenario emerso da questa analisi vede che la spesa pubblica, al netto degli interessi, ha viaggiato a una velocità superiore a quella registrata dalle entrate fiscali, anche se a livello locale la tassazione ha subito una vera e propria impennata. Ciò ha contribuito ad aumentare il carico fiscale generale, portandolo a toccare un livello mai raggiunto in passato. In aggiunta, alla luce di una spesa pubblica complessiva che in questi anni è sempre stata superiore al totale delle entrate finali, la dimensione del nostro debito pubblico è continuata a crescere in partenza di questa rilevazione, fa notare la Cgia, coincide con l'approvazione della prima legge Bassanini che diede avvio al federalismo amministrativo e alla semplificazione burocratica. «Appare evidente – dice il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi – che qualcosa non ha funzionato. Se i rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione sono materia di federalismo le leggi Bassanini e le riforme di settore che sono state realizzate successivamente non hanno aspettavamo proprio sul fronte della razionalizzazione della spesa e sul suo contenimento a vantaggio dei cittadini».

#Silvio, cessa quest'assurda commedia

Non esiste soluzione politica ai tribunali

Il dibattito politico-istituzionale si sta letteralmente avvitando su un'equazione –l'agibilità politica di Berlusconi come presupposto per la governabilità – del tutto falsa. È come tentare un'impossibile somma, ci insegnavano i maestri alle scuole elementari, mettendo insieme le pere e le mele. Proprio da considerazioni elementari occorre partire per vedere quale gigantesca impostura si nasconda dietro la furoreggiante campagna politica e mediatica che predica la necessità di una «soluzione politica» per la condanna all'ex premier, colpevole e condannato definitivamente per frode fiscale. L'origine dello stravolgimento dei fatti sta proprio nel punto di partenza della richiesta. Fino «a prova contraria», è il caso di dire, una condanna penale è una circostanza che nulla ha a che vedere con la politica, a meno che non si tratti di una condanna per reati politici (di per sé fuori questione in una democrazia). La realtà dei fatti mostra che Berlusconi si è reso colpevole di un reato grave e socialmente esecrabile – sottrarre al fisco 7,3 milioni di euro – in particolare per un imprenditore facoltosissimo. La pretesa di un salvacondotto politico per una condanna giudiziaria sta fuori dal perimetro logico, prima ancora che di quello etico e civile. La questione potrebbe essere, dunque, facilmente rubricata come mancanza di raziocinio o, al peggio, come disturbo psichico di chi la sostiene. Disgraziatamente non è così, perché le ragioni – quelle sì strettamente e direttamente politiche – che stanno alla base delle posizioni del Pdl tendono a stravolgere il rapporto tra legittimazione popolare e legittimità dello Stato di diritto. Giuliano Ferrara – allorché esulta perché, a suo dire, il presidente della Repubblica ha riconosciuto «l'eccezionalità» del caso Berlusconi – compie una duplice forzatura. Piega in modo improprio e fuorviante le sagge parole di Napolitano e, nel contempo, cerca di dar credito alla tesi che essere leader di un partito (per di più di un partito che ha un notevole consenso elettorale) configuri, per ciò stesso, un carattere di diversità rispetto ai cittadini normali. Sarebbe come dire che avere consenso elettorale definisce uno status di privilegio. L'esatto contrario non soltanto della nostra Costituzione e del principio basilare che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma del comune buon senso. In realtà, coloro che sono alla testa di formazioni politiche, ancor più se (come nel caso dell'ex premier) con un passato di responsabilità istituzionali di altissimo livello, dovrebbero ripudiare per principio ogni forma di protezione che non sia espressamente prevista dalle leggi. E magari, come si usava fare sino a qualche decennio fa, chiedere esplicitamente, in caso di vicende giudiziarie, di non valersi delle tutele previste per i parlamentari. A ben vedere, la bislacca tesi del consenso come fattore di garanzia «speciale» ha alla base un presupposto rischiosissimo per la democrazia, quello che la legittimazione popolare ottenuta attraverso il consenso elettorale sia fonte di una legittimità «speciale», che non conosce limiti e non deve essere sottoposta alle regole degli ordinamenti democratici. A voler prendere minimamente sul serio tale idea, si finisce per scivolare verso forme plebiscitarie di derivazione sudamericana che poco hanno in comune con le democrazie vere.

Stefano Sepe
L'Eco di Bergamo 25 08 2013

domenica 18 agosto 2013

i #marò? venduti all' #india. la versione di #terzi

i marò attendono la loro sorte in india
[photo: oggi]
l'ex ministro degi esteri giulio terzi di sant'agata, dal buen retiro del suo feudo bergamasco, torna a parlare del pasticciaccio brutto dei marò e racconta la sua verità in un'intervista esclusiva a l'eco di bergamo. temo che terzi abbia ragione: l'italia ha venduto i marò all'india per interessi economici, creando un pericoloso precedente di violazione del diritto internazionale, che prevede un arbitrato del tribunale dei diritti del mare in caso di conflitto di attribuzione giurisdizionale. noi invece i marò agli indiani glieli abbiamo ceduti, e amen.

non stupisce quindi il recente pasticcio kazako, dove la shalabayeva e figlioletta son state vendute, per analoghe ragioni di interessi economico-politici, al dittatore del kazakistan: e cosa vi aspettavate da un paese che a quelle ragioni sacrifica i suoi stessi soldati, che prendesse a cuore la sorte degli stranieri perseguitati?

come si dice in italialand? o franza o spagna, purché se magna...

ed ecco l'intervista:


«L’Italia sempre meno capace di gestire crisi internazionali»
Giulio Terzi e il caso marò, i rapporti con l’ex premier Monti, la situazione in Egitto e Siria
«Per paura di perdere affari in India abbiamo perso credibilità con gli indiani: disastro»

Intervista di Susanna Pesenti
L'Eco di Bergamo, 18/08/13



Nel silenzio del parco, ritagliato fra i capannoni di Tresolzio, Giulio Terzi di
Sant’Agata rende omaggio alla tradizione del Ferragosto bergamasco, in quel di Brembate
Sopra. E quest’anno riprende anche le forze, dopo le montagne russe pubbliche e private
degli ultimi mesi. Un anno fa era ministro degli Esteri, nel pieno della crisi indiana. Ora,
fuori dalla Farnesina da marzo e chiusa la carriera diplomatica a dicembre, appare disponibile
a parlare con la consueta cortesia e un filo meno (solo un filo) di diplomazia.

Allora i marò tornano a Natale, come si augura Staffan De Mistura? 
«Mah, De Mistura ha detto che sente "vibrazioni" in base alle quali il processo inizierà a settembre e ritiene che debba finire entro dicembre per via della politica indiana. Se sente "good vibrations" come i Beach Boys...».

Sul serio.
«Sul serio, io trovo molto grave che in questi mesi si sia consolidato il principio che l’attività
delle nostre Forze armate all’estero in missione di pace sia giurisdizione di un altro Paese.
Tanti giuristi internazionali vedono un errore nella linea presa dopo il 21 marzo, opposta a
quella decisa l’11 marzo».

Quando i marò erano stati tenuti in Italia, contro i patti di rimandarli in India?
«Tenuti in base al fatto che gli indiani erano inadempienti rispetto alla richiesta di consultazioni bilaterali, mirate a un arbitrato internazionale, obbligatorio secondo il Trattato sulla legge del mare, ratificato da entrambi i Paesi. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, aveva richiesto che la regolamentazione della vicenda avvenisse secondo il diritto internazionale. L’11 marzo avevamo avviato il percorso verso l’arbitrato obbligatorio. Tempo massimo due mesi, il Tribunale dei diritti del mare ci avrebbe detto di chi era la giurisdizione. Se italiana, i marò sarebbero rimasti definitivamente; se indiana, avremmo rispettato l’obbligo internazionale».

Invece il 21 marzo il governo ha capovolto la decisione per motivi di onorabilità internazionale.
«Il 21 marzo è stato il disastro. Si è rovesciato tutto per paura che Finmeccanica perdesse i
suoi affari. Abbiamo perso credibilità con gli indiani (e infatti il nostro export sta andando a
picco) e per fare le cose bene, abbiamo cancellato anche l’azione verso l’arbitrato obbligatorio. Cambiato il governo, il nuovo – penso in omaggio alla linea Monti – continua a non prendere la strada dell’arbitrato e conferma l’incarico a De Mistura, che l’11 marzo aveva dichiarato che il governo nella sua collegialità aveva fatto bene a decidere di mantenere i marò in Italia».

É ancora arrabbiato con Monti?
«Il punto è un altro. La mia prima preoccupazione è che Latorre e Girone tornino. Ma la seconda è che si apra un processo nel quale vi sono elementi che non sono compatibili con il nostro ordinamento. Inoltre, il vulnus che il nostro Paese subisce, sarebbe più grave se l’Italia continuasse a non adire alle
istanze internazionali. Se per fare rispettare la nostra sovranità siamo tenuti a rivolgerci ai
livelli internazionali, non possiamo non farlo. É un tema di sicurezza dello Stato, sono in gioco lo statuto giuridico dei nostri militari, settemila uomini in giro per il mondo, e la tranquillità dei cittadini italiani che devono sentirsi difesi all’estero».

Ce lo spiega perché li avete lasciatientrare in porto?
«Il ministero degli Esteri è stato informato dal comando interforze cinque ore dopo che
l’incidente era accaduto, a quel punto noi abbiamo detto di non farli entrare in acque territoriali, ma la nave era già in porto, attraccata. E ancora adesso subiamo le conseguenze, con questa
commedia di mandare avanti e indietro un negoziatore».

E che ne pensa del caso kazako? 
«La capacità di gestire le crisi, secondo me, sta diminuendo. Non siamo sufficientemente attrezzati perché il concetto di sicurezza nazionale come difesa della sfera di sovranità non è abbastanza presente nell’opinione pubblica e tra gli stessi politici. Dopo la gestione del caso Shalabayeva, qualche accademico è arrivato con l’idea brillante di creare il Consiglio di sicurezza nazionale. C’è già, si chiama Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica. Riunisce la decina di ministri che contano e i Servizi e dovrebbe essere in sessione permanente. L’estate scorsa, proprio per la gestione marò, avevo chiesto un incontro rapido ogni giorno per avere sempre il polso della situazione. Da luglio a dicembre ci saranno stati quattro incontri. C’è un deficit di attenzione sui temi internazionali. E quindi, quando arriva la crisi, la reazione è scomposta».

Detto da un ex ministro degli Esteri fa un po’ paura.
«La politica estera è poco sexy per l’opinione pubblica, il politico pensa che il cittadino sia attirato più dalle tasse che dalle elezioni in Mali, ed è vero, se non gli spieghi che le elezioni in Mali influenzano anche il suo futuro. L’indifferenza parlamentare indebolisce l’azione del governo quando capita la crisi perché, invece di ragionamenti, ottieni umori».