martedì 24 dicembre 2013

i #marò? con l'arbitrato #ONU sarebbero a casa da mesi. parola di giulio #terzi

Giulio Terzi si dimette da Ministro degli Esteri, Camera dei Deputati, 26/03/13
Photo: AdnKronos
«Con l’arbitrato
i due marò sarebbero
a casa già da mesi»

DI SUSANNA PESENTI
L'Eco di Bergamo, 24/12/13

L’ex ministro Giulio Terzi torna sul caso dei militari bloccati in India:
«Scelta una via errata, dando per scontate garanzie mai ottenute».
Il pensiero a padre Dall’Oglio e a Lo Porto, ancora sotto sequestro

Nella sua casa romana, il
pensiero di Natale di
Giulio Terzi, ex ministro
e ambasciatore,
«va ai nostri connazionali in pericolo,
speriamo non di vita. Di
loro non abbiamo notizie da
troppi mesi e non sappiamo
quanto spazio di negoziazione
vi sia. Penso a padre Paolo Dall’Oglio,
grande figura di religioso,
stimato in tutto il Medio
Oriente per le realtà di dialogo
create in Siria, e per la voce alzata
per i diritti della persona fin
dall’inizio della repressione di
Assad. Lo conobbi alla Farnesina
e ne rimasi molto colpito per
la fede e la cultura. Credo che
molte preghiere si leveranno
per lui in questi giorni. L’altro
caso non risolto è quello di Giovanni
Lo Porto, sequestrato in
Pakistan due anni fa. Anche per
lui si sono attivate tutte le reti
possibili».

Ma il tempo passa...
«In questi casi si può valutare
solo conoscendo in dettaglio e
in tempo reale gli andamenti
delle trattative. E in situazioni
così delicate, chi opera deve
mantenere il silenzio. In difficoltà
ci sono anche tremila italiani
detenuti all’estero, assistiti
per quanto possibile dalla nostra
rete consolare».

Ha in mente casi particolari?
«Ci sono connazionali finiti in
carcere dopo processi non limpidi,
che meriterebbero una revisione.
Un caso di palese iniquità
del processo, violazione
della convenzione di Vienna
sull’assistenza consolare, scarsa
trasparenza degli organi giudicanti,
incapacità di produrre
prove informate è quello ad
esempio di Chico Forti, che per
una serie incredibile di circostanze
è stato condannato all’ergastolo
e ha già scontato 14 anni
in un carcere della Florida. C’è
una mobilitazione in atto, che
prende forza anche dalla pubblicazione
di un libro documentatissimo
della criminologa Roberta
Bruzzone,”Il grande abbaglio”,
ma occorre anche continuare
la presa in carico politica
».

E poi ci sono i marò, che campeggia-
no sulla sua pagina di Facebook e
per i quali chiede, attraverso la Re-
te, auguri virtuali.
«Sul blog da sempre tengo vivo
il tema, anche se non è l’unico
di cui mi occupo. Questo thread
riservato alla catena degli auguri
in pochi giorni ha già raccolto
11 mila “mi piace”, 200 mila persone
hanno visto il singolo post,
abbiamo registrato oltre 4.000
condivisioni su bacheche di altri
e i commenti sono alcune centinaia.
Sono stato fin troppo
“identificato” con questa vicenda,
ma ripeto che non solo li
hanno rimandati in India, illegittimamente
per l’ordinamento
italiano, per affrontare un’indagine
politicizzata al massimo
nel contesto preelettorale di
quel Paese e per essere sottoposti
a una Corte speciale di cui
sappiamo poco. Mese dopo mese,
si conferma che nessuna delle
ferme garanzie che dovevano
essere ottenute dagli indiani
prima di quella avventata “riconsegna”,
non è mai stata ottenuta,
e neanche negoziata».

Ma quando li hanno rimandati, co-
me dice, lei era ministro degli Esteri.
«Infatti è stato un errore, io ero
contrario, e come è finita lo sanno
tutti. Perché, da marzo, la
linea è stata: “Affidiamoci alla
giustizia indiana, confidiamo
sulla loro comprensione”? Per
dimostrare ”continuità” ed evitare
di riconoscere quel drammatico
errore commesso su impulso
di chi era coinvolto soprattutto
nell’aspetto economico
della questione. E si é lasciata
perdere la strada maestra dell’arbitrato
internazionale obbligatorio».

Perché ritiene che l’arbitrato sareb-
be stata la scelta migliore?
«Scegliendo l’arbitrato internazionale,
i nostri due uomini sarebbero
tornati a casa da mesi,
e avremmo ottenuto da un’autorità
giudicante Onu una decisione
sull’intera questione».

E i rapporti con l’India?
«Sarebbe stata un’opzione infinitamente
migliore, anche per
il mantenimento di buoni rapporti
con l’India. E rinunciamo
all’azione internazionale, suggerita
dai giuristi di mezzo mondo
per il timore che il solo fatto
di adire la Corte di arbitrato obbligatorio
possa rendere più spigolosi
gli acquirenti indiani di
materiali per la Difesa».

Sta dicendo che per non perdere
l’affare, lasciamo perdere gli uomi-
ni?
«Non esistono precedenti di Paesi
che non solo non agiscono di
fatto, ma che non agiscono neppure
in via di diritto, per la tutela
della propria sovranità e le Forze
armate ne sono espressione.
L’Italia ha ricorso in decine di
casi, negli ultimi anni, in sede
internazionale, anche per casi
assai meno rilevanti, senza che
i rapporti con i Paesi oggetto
della controversia ne risentissero».

Italiani all’estero: sembra stia tor-
nando un’epoca di emigrazione. Co-
me vede la situazione?
«C’è una generazione che prima
è andata all’estero da studente,
ora va in cerca di lavoro. E non
riguarda più solo il comparto
scientifico, ma tocca ormai tutti
i mestieri. Andare apre nuove
opportunità, ma queste energie
devono restare in contatto con
l’Italia, non essere perdute. Per
questo una rete diplomatica di
assistenza forte è importante».

Lei continua a essere attento osser-
vatore della realtà internazionale,
atlantica ed europea, in rapporto
all’Italia. Come vede il momento?
«Non bello. La tempesta sull’uso
dei dati informatici non è finita,
la cascata di informazioni continuerà,
il disegno è preordinato
e concordato per indebolire la
capacità di Intelligence e creare
difficoltà nell’alleanza atlantica.
Si stanno chiarendo ruolo e a
responsabilità di certi Paesi insulari.
Occorre collaborazione
e chiarezza riguardo agli obiettivi
dell’attività di Intelligence:
antiterrorismo, sicurezza, difesa,
senza sconfinare nella competizione
industriale. L’Italia
deve fare attenzione che certe
ferme prese di posizione di Berlino
e Parigi non preludano ad
accordi che taglino fuori l’Italia.
Dobbiamo essere inclusi nei
gruppi ristretti di concertazione.
Sempre per la nostra sicurezza,
potremmo essere anche
meno timidi nel proporci come
guida nelle missioni internazionali.
Infine, in Europa abbiamo
bisogno di più equilibrio e meno
Germania. Guardiamo all’Unione
bancaria, due anni che se ne
parla, la Germania sembrava
convinta. Adesso scopriamo che
il monitoraggio delle banche sistemiche
europee è stato comunitarizzato,
ma l’eventuale salvataggio
delle banche è lasciato
al livello nazionale. La soluzione
concordata per l’Unione bancaria
è di sicuro un passo avanti
per la capacità di sorveglianza
della Bce sulle banche sistemiche
e consente di prevenire crisi
improvvise e inattese, anche se
bisognerà vedere come risponderanno
i mercati a un sistema
molto complicato in un campo
dove le decisioni operative devono
essere immediate per essere
efficaci. Tuttavia c’è un notevole
“problema politico” nell’accordo:
gli squilibri di fondo
determinati dal prevalere della
Germania nelle decisioni a Bruxelles
hanno fatto sì che a una
comunitarizzazione del sistema
di sorveglianza non corrisponda,
come ci aspettavamo e come
doveva essere, la comunitarizzazione
degli oneri finanziari
per eventuali salvataggi di banche
in crisi. Questi ultimi restano
a carico di azionisti, creditori
e governi nazionali. Sempre la
stessa logica, quindi, che non fa
che alimentare risentimenti antieuropei,
e critiche a Berlino,
anche eccessive, di indifferenza
e scarsa solidarietà. Non bene,
per le prossime elezioni europee.
E l’allentamento dell’austerità
adesso sarebbe condizionato
ad accordi-Paese specifici
che, in realtà, sono riforme già
implicite nel fiscal compact. Come
Italia, in questo contesto,
sarà meglio sbrigarsi con le riforme».

A proposito di elezioni europee,
Giulio Terzi si candida?
«È Natale, ora facciamoci gli auguri».

mercoledì 11 dicembre 2013

#forconi & forchette

Forconi e forchette

giorgio gandola
l'eco di bergamo, 12/12/13

Il problema dei forconi non sono le motivazioni, perché chiedere a gran voce un taglio delle imposte che strangolano i cittadini è del tutto legittimo e condivisibile in un Paese nel quale lo Stato è ancora l’unica azienda a non avere fatto sacrifici. Il problema dei forconi non sono neppure le modalità, perché al di là del disagio viabilistico e di deplorevoli eccessi teppistici (da tenere sotto controllo e se il caso da sanzionare con rigore), la protesta viene accettata nella sua essenza. Una frase per tutte sentita alla radio da parte di un automobilista imbottigliato dalle parti di Orio: «Se è per loro accetto di stare in coda». Il problema dei forconi sono i leader, la loro caratura politica, o almeno ciò che dei loro predecessori la storia più o meno recente ci racconta. Provo a spiegarmi. La Life (Liberi imprenditori federalisti europei) è nata in Veneto negli anni Novanta e già allora s’era distinta per un braccio di ferro permanente e frontale con lo Stato, con la Guardia di finanza, con l’Agenzia delle entrate. Il suo leader era Fabio Padovan, che parlava di casta prima del libro di Stella e Rizzo e che incitava alla rivolta civile, esattamente come oggi i suoi successori. Nel frattempo Padovan, sull’onda di quelle proteste di piazza, fu eletto in Parlamento e come spesso accade entrò incendiario e uscì pompiere. L’anno scorso, lui che aveva fatto per primo le barricate in difesa delle partite Iva, votò contro l’abolizione dei vitalizi a Montecitorio perché c’era anche il suo. Come nascere forconi e morire forchette.

martedì 10 dicembre 2013

#berlusconi e la gabbia in cui si è messo da solo



prendo la parola tra il pubblico de "la gabbia", il talk show politico del mercoledì su "la 7" condotto da gianluigi paragone, per dire che berlusconi lasciando il governo si è infilato da solo in un vicolo cieco. dopo la scissione di alfano e i suoi il cavaliere non ha i numeri per far cadere nessuno, diventando sempre più ininfluente sulle dinamiche parlamentari e governative.

l'unica possibilità di contare ancora qualcosa prevederebbe un'improbabile alleanza con i grillini, che però lo vedono come il male assoluto della politica italiana, una specie di anticristo da abbattere senza se e senza ma. della mala parata si è accorto seppur in in ritardo lo stesso silvio. l'uomo di arcore cerca ora disperatamente di compattare un'armata brancaleone antieuropea saldandosi col movimento 5 stelle, ovviamente la lega, qualche postfascista sovranista e facendo addirittura l'occhiolino a SEL.

fosse rimasto al governo, avrebbe fatto ballare la giga al povero letta, e dato non poco filo da torcere allo stesso renzi. il "segretario fiorentino" ora invece ha campo libero per imporre al governo il suo programma di riforme, mentre "forza italia" si consuma in un'inutile opposizione senza sbocchi.

martedì 3 dicembre 2013

#twitter: il fight club 2.0?

cyberbullismo che passione. mostrare i muscoli, o meglio i denti come fanno i cani prima di azzannarsi tra di loro, è sempre più in voga su twitter e piattaforme affini, infestate da squadre di cazzari devoti all'ultraviolenza verbale. purtroppo sui social si confonde la critica e anche la satira (che ci stanno tutte) con l'insulto e la minaccia. anzi non solo sui social, anche in tv e in ogni forma di comunicazione, politica e non. su twitter come citi temi come l'euro ad esempio o i no tav ti saltano addosso una dozzina di fake e troll. è una strategia scientifica, dietro c'è qualcuno pagato da qualcun altro per fare il cybersquadrista. il tutto porta ad una specie di fight club di dementi, bonificabile solo bannando i teppisti pixelati.
Fight Club [photo: My Bookshelf Review]

chi spende tempo e denaro per inquinare twitter ne ha evidentemente colto la potenza mediatica e la capacità di amplificare parole d'ordine politiche, meglio se estreme, strampalate, paradossali, complottarde ma ad effetto. anche su youtube i video più cliccati e commentati sono quelli sugli alieni che cospirano coi massoni per imporre il signoraggio diffondendo le scie chimiche. sui social si riversa una generazione di scontenti, disoccupati, rivoluzionari da tastiera, onanisti mentali e non, che usano il web come sfogatoio di massa.

va benissimo, intendiamoci, macché censura, tutto fa brodo, anything goes. il fenomeno è anzi parte integrante del fascino trash dei social network. cosa sarebbe twitter senza i flame dove poi tutti si bannano rabbiosamente a vicenda o youtube senza i video demenziali con migliaia di commenti dementi? però è sotto gli occhi di tutti l'impoverimento del dibattito, ridotto a tenzone di lepidezze (se va bene) o di insulti (quando degenera, cioè spesso). 

anche in tv ormai si parla come su twitter, con frasette acidelle e ad effetto. anche quando i tempi televisivi lo consentirebbero (tipo a "porta a porta") non serve argomentare la dimostrazione delle proprie ragioni, importa solo "fare la bella figura" con una battuta da retweet che lasci l'avversario senza parole, al tappeto. alla logica e alla dialettica si sostituisce la retorica gimnosofistica di chi oggi sostiene una tesi e domani la tesi opposta, senza alcuna onestà intellettuale, pur di portare acqua al suo mulino (esempio: "cipro e islanda, due pesi e due misure". ma ce ne son tanti altri). ormai si tuitta anche nella dialettica politica, renzi ad esempio ha successo perché è un grande battutista da 140 caratteri anche nelle sue infinite dichiarazioni tv. del politico si deve dire "che figo" più di "che bravo", lingua sciolta e battuta pronta valgono più di mille programmi di governo.

questo fenomeno di devoluzione della logica e demenzializzazione del dibattito politico-mediatico è destinato a radicalizzarsi sempre più. io che ho capito dove andiamo a finire mi sto preparando: famo a gara de rutti?!?





martedì 26 novembre 2013

doctor jekyll, mister #silvio

L'indimenticabile Silvio Berlusconi
dottor jekyll, mister silvio

gianlorenzo barollo

l'eco di bergamo 26/11/13

È uno strano caso quello del signor Silvio e del cavaliere Berlusconi. Uno è un avventuroso imprenditore di successo, proprietario di televisioni e giornali, finito nel mirino della magistratura per qualche banale dimenticanza tributaria (mister Agrama ne sa qualcosa)
ed eccessiva generosità verso prosperose teenager. L’altro è un politico che parla dritto alla pancia della gente e ha raccolto milioni di voti sotto la bandiera della libertà (ora condannato per la faccenda dei soldi non versati al fisco. Il cavaliere invece ha guidato fino all’altro ieri il polo del centro destra finchè non è scivolato su una chiazza di spread davanti a palazzo Grazioli. E’ una situazione incresciosa, poichè si tratta della stessa persona. Silvio stesso si è svelato rivolgendosi al presidente Napolitano: dammi la grazia, ma senza che te lo chieda. Purtroppo non funziona così. E poi sono in arrivo altre sentenze, altri impicci. Mica si può concedere l’amnistia perpetua, come il prigione». Serve una soluzione definitiva al caso: questi due individui non possono coesistere nella stessa persona. Pena la caduta del governo, il default dell’Italia, il crollo dell’euro e il naufragio delle democrazie occidentali. Pare che il Cnr stia lavorando a un progetto di sdoppiamento atomico con ciclotrone. Avremo finalmente due soggetti distinti: il reo Silvio e il cavaliere smacchiato. Oppure raddoppieremo i nostri guai.

domenica 17 novembre 2013

#forzaitalia e nuovo centrodestra, fratelli coltelli

berlusconi e alfano: ci eravamo tanto amati...
la scissione di alfano e dei governativi del pdl da forza italia dopo settimane di tira-e-molla non ha colto nessuno di sorpresa, e si presta ad una duplice chiave di lettura. i teorici del complotto lo leggono come un teatrino politico che cela un'operazione consensuale di spacchettamento, come accadde per il partito dei "fratelli d'italia".

in questo modo berlusconi si sarebbe scrollato di dosso le estenuanti liti tra falchi e colombe, riuscendo nel funambolico intento di tenere un piede al governo e uno all'opposizione, creando un contenitore alleato ma formalmente indipendente per intercettare gli elettori moderati più colomba che falco, giocando su più tavoli e tenendosi aperte tutte le opzioni e le alleanze. in una fase di grande fluidità politica, dove il cav non ha più i numeri per far cadere l'esecutivo ed è come sempre zavorrato dalle preoccupazioni per le sue aziende in caso di crisi di governo, silvio sarebbe insomma riuscito nel suo estremo capolavoro da zelig, quello di essere all'opposizione di se stesso, con un partito di lotta ed uno di governo.

l'altra scuola di pensiero lega invece il "parricidio di silvio" compiuto dal suo ex pupillo alla rinascita del grande centro democristiano, risultante dalla convergenza degli alfaniani con l' UDC di casini e la corrente ciellina di scelta civica, che ha recentemente abbandonato al suo destino la navicella di monti. secondo questa interpretazione lo scambio di cortesie nella separazione tra silvio e alfano sarebbe solo buonismo politico di facciata, mentre il disegno dell' ex delfino del cav sarebbe nientemeno che il superamento del bipolarismo. tanto più che si ipotizza una legge elettorale proporzionale che sembra fatta apposta per far resuscitare la vecchia politica dei due forni di democristiana memoria, con il centro a far da ago della bilancia per alleanze (pre o post elettorali) volta a volta con la destra o la sinistra.

una cosa pare assodata: le elezioni anticipate nessuno le vuole, dato che destra, neo centro e sinistra stan vivendo un gran rimescolamento di carte. l' unico pronto alla pugna pare il solito grillo in perenne guerra contro tutto e tutti.

il resto, se la scissione del nuovo centrodestra di angelino  sia vera o sia solo una recita a tempo, se il bipolarismo sia morto o destinato a rinascere alle prossime politiche sotto mentite spoglie, lo scopriremo solo vivendo. tanto qui in italia non si combina mai nulla, ma lo spettacolo, almeno quello, è sempre assicurato.

mercoledì 13 novembre 2013

se #M5S tira la #corda su #nassiriya

l'onorevole emanuela corda
vengo stimolato dall'amica @susanna.ricciarelli1 ad esprimermi sulla deputata grillina emanuela corda, che nella commemorazione dell'attentato di nassiriya alla camera (seduta del 12/11/13) ha detto che nessuno ricorda il kamikaze marocchino che è anche lui vittima del fanatismo islamico (suscitando comprensibili reazioni di sdegno). 

sull'iraq col senno di poi il giudizio è chiaramente negativo, basta vedere cosa è stato il dopo saddam. tuttavia la missione italiana era successiva alla fine del conflitto e basata su una risoluzione ONU. se poi mi dici di condannare moralmente il kamikaze, non lo posso fare in quanto non essendo dio non giudico le coscienze. se invece mi chiedi quale fosse a mio parere lo status del kamikaze, risponderei "combattente per motivi religiosi", quindi paradossalmente se c'è un paradiso dei martiri della sua fede, sarà di sicuro lì. 

insomma fino a prova contraria tutto era il kamikaze, fuorché "vittima". discorso analogo per bin laden e financo per priebke. come vedi cara amica non ho alcun timore di esprimere le mie idee, anche se un po' fuori dal coro. detto questo, qui siamo su un social blog mentre l'onorevole corda era in una commemorazione in parlamento, ovvero in sede e contesto ben diverso. la grillina è stata assolutamente inopportuna e fuori luogo, volendo fare la bastian contraria a tutti i costi. questo è il mio pensiero: altri possono averne altri, tutto è opinabile in politica.

sabato 9 novembre 2013

#Cisnetto: Evitare la deriva populista

La cronaca politica è riempita esclusivamente dalle diatribe interne a Pd e Pdl. A volte sovrastano quelle relative al sanguinoso percorso dei Democratici verso le primarie per la segreteria, altre volte predominano quelle che riguardano Berlusconi e lo scontro tra berlusconiani doc e diversamente berlusconiani. In entrambi i casi si tratta di guerre fratricide, senza alcuna esclusione di colpi, che hanno per obiettivo il controllo dei rispettivi partiti, o per meglio dire quel che di loro rimane. Fanno da contorno, ma si integrano perfettamente nel contesto, gli scontri dentro Scelta Civica, che hanno già portato il suo fondatore, Mario Monti, a lasciare, e dentro la Lega, con il possibile ritorno di Bossi, la ancor più probabile uscita di Tosi e la segreteria messa in palio da Maroni, che preferisce restare asserragliato nel fortino della Regione Lombardia. Persino i pentastellari di Grillo faticano a tenere insieme i cocci.

In questo quadro spicca la debolezza del governo, sovrastato da guai interni ai suoi tre azionisti che finiscono per brandire come clave i temi relativi all’esecutivo, dalle scelte economiche (prima Imu e Iva, ora la legge di Stabilità) alle insorgenti emergenze (ultimo il caso Cancellieri), al solo scopo di regolare i propri conti interni. Peccato, però, che siano guerre inutili. Il discredito di cui godono la politica e i suoi attori – tutti, senza eccezione alcuna, accomunati da un giudizio che inevitabilmente appare generico e qualunquista, ma che purtroppo è più che fondato – come pure le istituzioni, discredito rafforzato proprio dallo spettacolo indecoroso di queste guerre intestine fini a se stesse, fa si che la conquista della leadership dei partiti risulti, e sempre più risulterà, del tutto ininfluente ai fini della conquista del consenso popolare.

La nostra stima è che gli attuali partiti alla prossima occasione elettorale, specie se sarà quella europea, che da sempre induce l’elettorato a maggiore libertà, saranno investiti da uno tsunami di proporzioni gigantesche, che finirà per spazzarli via. Sia chiaro, non è un auspicio il nostro, ma una previsione. Noi desideriamo il cambiamento, anche radicale, ma naturalmente ci poniamo il problema di verso quale lido s’indirizzeranno i voti in fuga e della conseguente governabilità. Non siamo per il tanto peggio tanto meglio, ma condividiamo le ragioni per cui gli italiani non ne possono più. E vorremmo che i partiti, o quel che resta di loro, capissero –ammesso e non concesso che siano ancora in tempo – quel che gli aspetta e ciò che può succedere al Paese. Ma, appunto, è difficile credere che possano averne la capacità, visto lo spettacolo cui ci fanno assistere.
Si dice che molto dipenderà dalla legge elettorale. È stato vero per molti anni e fino a qualche tempo fa. Ora è tema relativamente indifferente: non sarà una tecnicalità di conteggio dei voti o l’altra a indurre maggiore o minore disponibilità degli italiani verso questa offerta politica. Né sarà questa o quella legge elettorale a determinare il quadro politico successivo alle elezioni. Noi restiamo fermamente convinti che sia meglio una legge di forte ancoraggio europeo, e che le uniche due esperienze copiabili – a patto che vengano importati anche i rispettivi sistemi istituzionali –siano la tedesca e la francese. Preferiamo il sistema tedesco, ma piuttosto che un qualche pasticcio all’italiana, ben venga quello transalpino. Tuttavia, salvo adottare un maggioritario ancor più sfacciato di quello in vigore, il tema vero sarà quello che il basso consenso costringerà nuovamente a riunire le forze residue in larghe coalizioni. Ed è per questo che se ciascuno degli attori in campo avesse un briciolo di cervello residuo, si affiderebbe ad un sistema di tipo proporzionale, correggendo la dispersività con una robusta soglia di sbarramento (non meno del 5%), a sua volta corretta dal diritto di tribuna.

Ma in tutti i casi il nodo da sciogliere è un altro: chi erediterà il voto in uscita dai vecchi recinti della sinistra, del centro e della destra. Che accada prima delle prossime elezioni – ripetiamo, con tutta probabilità quelle europee, considerato che riteniamo improbabile una caduta del governo anche dopo la decadenza da senatore di Berlusconi – perché nel frattempo avverrà l’implosione di Pdl e Pd, o che avvenga dopo le urne per effetto del “voto contro” degli italiani, la questione delle questioni è la nascita di nuovi soggetti politici – avulsi rispetto agli attuali – capaci di incanalare la protesta.

La nostra speranza e il nostro impegno è che ciò avvenga a favore di soggetti alternativi ma non protestatari e populisti (massimalisti di sinistra, qualunquisti di destra, genericamente agnostici). Ma è dura. Perché all’orizzonte non c’è ancora niente, e il tempo stringe. Maledettamente.

Enrico Cisnetto
Terza Repubblica

09/11/13

giovedì 31 ottobre 2013

√ #lagabbia l' #euro? un progetto marxiano lasciato a metà

euro sì euro no euro come? ecco il tormentone che fa da fil rouge prima a "l'ultima parola" e ora a "la gabbia", il talk show del mercoledì sera su la7, condotto dall'ereticale gianluigi paragone. unico contenitore di idee non allineate col mainstream, il programma accende i riflettori sul vero fulcro politico dell'italia attuale, ossia l'europa e la valuta unica, la BCE e il fondo salvastati: insomma è l'economia, baby. come nota lo stesso paragone, mentre i media mainstream ci bambocciavano con il cavaliere, ruby, i processi, la riforma silviana della giustizia, nonché le vicende di bossi e il suo trota, passava sotto silenzio il tema-macigno del secolo, quel trattato del fiscal compact che ci lega al carro europeo a prezzo di pesantissime manovre annuali per i prossimi 20 anni. misure draconiane per passare da cicale a formiche, misure che gli italiani avrebbero anche potuto accettare, se solo qualcuno si fosse degnato di spiegargliele e motivargliele.

il mio pensierino da bar sul progetto-euro è che si tratti di un disegno non marxista ma marxiano (nel senso non dei fratelli ma di carlo). l'idea che dalla struttura (economica) scaturisca la sovrastruttura (politica, sociale e culturale) rimanda a marx, o almeno al marx masticato dagli economisti che han dato un esame di storia delle dottrine economiche all'università. unifichiamo la moneta e da lì arriverà il single market europeo, dalla libera circolazione di cittadini, merci e servizi si giungerà alfine alla fusione dei popoli entro un'unica identità europea. dall'euro agli stati uniti d'europa insomma. il progetto è ambizioso e affascinante, ma troppo ingenuamente e scolasticamente marxiano: non basta (è sotto gli occhi di tutti) l'unità valutaria se non abbiamo una vera cabina di regia condivisa democraticamente che gestisca l'unificazione politica, legislativa, militare, fiscale del vecchio continente.

le attuali istituzioni europee sono a metà del guado e rappresentano l'unificazione peggiore, quella fatta a metà che lascia gli stati in concorrenza tra loro per attrarre investimenti in cambio di sgravi fiscali, e tutti i "vecchi" stati europei impegnati nel gioco del sospetto reciproco e dello scaricabarile delle responsabilità economiche e politiche che ci hanno portati all'attuale crisi dell'eurozona. a questo punto solo la condivisione di sovranità (non cessione come si dice riduttivamente, ma condivisione su un piano più alto) con la creazione di un vero super-stato federale europeo dotato di personalità giuridica e identità politica potrà salvarci dalla fusione fredda. cos'è la fusione fredda europea? è quella praticata dalle istituzioni finanziarie comunitarie come BCE e ESM (fondo salva-stati), importantissime ma prive di reale identità politica e dipendenti dalla continua, estenuante negoziazione tra i rappresentanti dei paesi membri. questa è la cessione (e non vera condivisione) di sovranità che non vogliamo, l'espropriazione strisciante del potere decisionale del popolo da parte degli eurogrigiocrati non eletti, che rispondono (forse) al potere politico che li ha nominati o ha influenzato la loro nomina, ma sono lontanissime dal popolo che manco conosce i loro nomi né tantomeno sa cosa combinano nelle loro austere stanze dei bottoni, salvo essere legato mani e piedi alle loro decisioni. europa, lasci o raddoppi?

martedì 29 ottobre 2013

#Social #media #marketing o morte

«Pmi, usate Twitter e Facebook» Piace il guru dei social network Ben 150 imprese presenti nella sede di Confindustria per ascoltare Maz Nadjm «Con i nuovi mezzi le imprese possono capire le esigenze dei potenziali clienti»
di Mariagrazia Mazzoleni

Platea giovane e look informale, relatori compresi. Ad ascoltare Maz Nadjm, il guru dei social media, ieri si sono presentate centocinquanta imprese bergamasche. Ma le adesioni, causa capienza della sala, hanno dovuto essere stoppate a poco più di una settimana dall'apertura dell'evento, promosso dai servizi innovativi e tecnologici di Confindustria in collaborazione con la società di marketing Multiconsult. Jeans e maglioncino rosso nella sede di Confindustria Bergamo, il quarantenne inglese - definito nel 2011 dal The Sunday Times e nel 2012 da Forbes tra i cinquanta professionisti più influenti al mondo, nell'ambito dei social network - ha dispensato consigli sui nuovi luoghi del business. E se nelle nuove piazze ci stanno i clienti della sua società, SoMazi, (dalla Bbc all'American Express, dal Chelsea Football Club a Sky, dalla Nestle a Expedia e alla British Airways) c'è posto comunque anche per le imprese di casa nostra. Che, a considerare dal numero dei presenti all'incontro -moderato da Giovanna Ricuperati, amministratore delegato di Multiconsult - su questa opportunità hanno cominciato almeno a ragionarci. Insomma qualcosa si muove anche in chiave local, soprattutto nel settore dei prodotti di consumo.

«La comunicazione via social media raggiunge rapidamente le grandi masse (circa un miliardo e mezzo nel mondo sono le persone che li frequentano) e in questa piazza - sostiene Nadjm -tendono tutti ad essere molto trasparenti. A condividere pareri e suggerimenti su quello che piace o che non piace. Quindi le aziende, quelle di 40.000 dipendenti come quelle di 50 addetti, hanno un doppio interesse per starci: informare da un lato e ascoltare dall'altro, per capire le esigenze dei potenziali clienti. Anzi per le imprese più piccole è sicuramente più vantaggioso perché l'utilizzo dei social è molto meno costoso di altre forme di pubblicità».

Nato come programmatore, Maz Nadjm, deve la sua fortuna al fatto di aver intuito già dieci anni fa - Facebook era ancora agli albori - l'importanza dei social. Da Twitter a Linkedin, da Facebook a Instagram, passando per Google: «Ognuno ha una propria specificità - ha ricordato il fondatore di SoMazi - ma non bisogna dimenticare che in tutti si confrontano esseri umani e quindi le informazioni devono essere sempre leali, trasparenti, autentiche e a lungo termine, perché dirette a persone che a loro volta trasferiranno il loro giudizio, positivo o negativo, ad amici e followers».

In rete si scambiano opinioni e si formano le decisioni di buyer e consumatori. Una presenza professionale sul web non è più un'opzione o una scelta, ma una necessità, sia in ambito «B2B» (business to business) che «B2C» (business to consumer). Tanto più che i social non sono solo uno strumento legato al processo di vendita, ma abbracciano tutta l'attività, dallo studio e definizione del prodotto, al percorso di distribuzione, fino al customer service. Ragionare in chiave social vuol dire quindi mettere alla prova tutta l'azienda. Con un ulteriore vantaggio: si tratta di iniziative misurabili, il ritorno è immediatamente verificabile.

Ad entrare nei dettagli è stato Luca Bonfanti, responsabile area sociale network di Multiconsult, intervenuto al convegno con Fabio Rezzoagli (Linkedin Italia) e Angela Falotico (Tsw, società leader in Italia nello sviluppo di piattaforme di e-commerce). «Ci sono almeno tre indici di misurazione - ha spiegato -, il fatturato generato (quanti contatti sono arrivati all'e-commerce), la visibilità data all'azienda (che può essere comparata con i costi della pubblicità cartacea) e la riduzione immediata dei costi (in rete si danno risposte e assistenza che prima avvenivano via telefono)». «I social - ha ribadito Bonfanti - sono quindi utili per qualunque tipo di impresa e di qualsiasi dimensione. Anche in Bergamasca siamo passati dalla fase in cui venivano considerati poco più di un gioco, a quella in cui si riconosceva una potenzialità di business, per entrare ora nella terza fase relativa alla valutazione di questo strumento come area d'investimento. È stato stravolto anche il modo di lavorare nel marketing. È ormai statistico, infatti, che il 60-70% del processo d'acquisto di un cliente si è completato ancora prima che il consumatore contatti l'azienda».

Passaparola digitale, piazza virtuale più grande al mondo, le definizioni si sprecano. Una cosa è chiara - tentando un'estrema sintesi del convegno - se le imprese bergamasche vogliono continuare a vendere, devono esserci.

L'Eco di Bergamo 29/10/13

lunedì 14 ottobre 2013

#olivati a #lagabbia 09/10/13: ipotesi #amnindulto? una schifezza


dopo un serrato confronto televisivo in diretta tra movimento 5 stelle e larghe intese, arriva  il mio telegrafico intervento al talk show "La gabbia" di mercoledì 09/10/13 (condotto da gianluigi paragone su La7) sull'ipotesi di indulto o amnistia avanzata in questi giorni dalle forze politiche governative.

il dibattito infiammato sulla rete e in televissione intorno al tema giutizia/amnindulto/berlusconi ci dice che l'opinione pubblica è esasperata. anche stavolta finirà tutto a tarallucci e vino? intanto la distanza tra il popolo e il palazzo cresce, ogni giorno di più.

di seguito riporto una conversazione su facebook con un collega genovese sul tema carceri, che ha anche un risvolto immobiliare. come si vede le soluzioni spendibili sono diverse; sempre che la politica non opti, come sempre, per soluzioni tampone come indulto o amnistia ("amnindulto"), che oltre ad offendere i cittadini onesti lasciano incancrenire di nuovo il problema del sovraffollamento delle carceri nel giro di un paio d'anni, come successe per l'indulto del 2006.
  • Conversazione iniziata Mercoledì
  • Manuel Giampaolo Lanata
    Manuel Giampaolo Lanata

    Caro Giuliano, ho condiviso in pieno il tuo intervento contro l'indulto alla Gabbia che sto guardando. Bravo!
  • Giuliano Olivati
    Giuliano Olivati

    grazie. siamo tutti esasperati. mobbasta
  • Giovedì
  • Manuel Giampaolo Lanata
    Manuel Giampaolo Lanata

    L'argomento carceri è tornato d'attualità ma, come sempre, anzichè soluzioni definitive si cercano scorciatoie temporanee. Ti propongo una mia piccola indagine e considerazione di qualche mese fa: se ti trova concorde e vorrai farla tua, e magari e portarla alla ribalta della Gabbia, non avró certo nulla in contrario: In Italia un detenuto costa 119 E al giorno (in carceri da terzo mondo), in Spagna costa la metà e in Francia costa 100 E (ma lì le carceri sono modello!). 119 per 365 per 66 mila detenuti (tanti sono in Italia) fanno quasi 3 miliardi di E all'anno pagati dallo stato italiano. La CCA (www.cca.com) è un'azienda privata che ha costruito e gestisce oltre 60 penitenziari in Europa (non so quanti nel mondo) e che, rispettando standard qualitativi altissimi, chiede allo stato meno di 30 E al giorno per ciascun detenuto, cioè un quarto di quanto spendiamo adesso. Affidare tutti i nostri detenuti a questa azienda ci farebbe risparmiare tre quarti dei suddetti tre miliardi all'anno e risolverebbe il problema delle carceri italiane "da terzo mondo". Questa soluzione, peró, si scontra col vizio dell'italica politica di magnare ovunque e, pertanto, non verrà mai adottata. Intanto paghiamo noi.
  • Giuliano Olivati
    Giuliano Olivati

    convengo manuel e ti ringrazio. aziende private potrebbero prendere in appalto le caserme inutilizzate e invendibili in ogni città e avremmo risolto emergenza carceri. ma è troppo intelligente, naa

giovedì 3 ottobre 2013

#Lampedusa, l'#Europa non puo' negare asilo politico

«La fuga dalle torture in Ciad La Libia, il mare e poi l'Italia» Moussa, a 17 anni, scappato dalla guerra: non so niente dei miei cari. Sidik dal Sudan su un barcone: rotto il motore, in balia delle onde.

Laura Arnoldi, L'Eco di Bergamo 4/10/13

La paura Moussa l'ha ancora negli occhi, nonostante sia in Italia dal 13 agosto 2011, arrivato a bordo di un barcone partito dalla Libia. Alle spalle si è lasciato la prigione, i ribelli, un Paese – il Ciad – in cui non può tornare. In Italia ci è arrivato per caso: non l'ha scelta come meta del suo viaggio. «Io non conoscevo l'Italia – dice –, ero solo stato in Africa». Il giovane è uno degli oltre trecento profughi accolti dalla Caritas diocesana bergamasca nell'ambito del progetto biennale di accoglienza per l'Emergenza Nord Africa. In viaggio dal Ciad all'Italia Moussa Barko Sidik ha più o meno 22 anni: «Non conosco esattamente la mia età – dice –: in Ciad abitavo in campagna e non si viene registrati». Sarà per questo che conserva con tanta cura il tesserino di identità che ha ricevuto al suo arrivo a Lampedusa: «È tutto rovinato, ormai. Non vale più, ma lo tengo sempre con me». Lo toglie dal portafoglio, lo mostra e si percepisce che per lui ha un valore immenso. Rispetto a un qualsiasi coetaneo Moussa ha vissuto esperienze terribili. Ha più volte rischiato di morire. Diventa adulto in fretta quando nel 2008 entra nelle truppe dei ribelli: «Combattevamo contro il governo». A quel periodo risalgono le cicatrici che ha sul corpo: «Una bomba è scoppiata e mi sono bruciato», mentre parla si tocca il petto e il volto. Viene catturato dalla polizia, portato in prigione. Erano in cinque: uno viene ucciso subito al momento dell'arresto perché ha con sé dei documenti dell'esercito ribelle, un altro muore dopo che gli agenti, che torturavano i prigionieri, gli tengono la testa sott'acqua. Così appena possibile scappa dal carcere: «Il soffitto era una gabbia di metallo, ma non molto forte e duro». Si nasconde da un parente che lo ospita per un mese e alla fine gli dà il denaro sufficiente per lasciare il Ciad. «Ho passato la frontiera e attraversato il Niger su un'auto. Eravamo in più persone che non conoscevo». Il mezzo dopo qualche giorno giunge a Tripoli («Durante il viaggio stavo male, avevo la febbre, non ricordo bene cosa è successo») e qui si imbarca. «Siamo rimasti in mare per tre giorni, avevo paura, la barca era piena, con centinaia di persone, non ci si poteva muovere. C'era gente dal Ghana, dal Niger, dalla Somalia, dall'Etiopia. Non avevamo né acqua, né cibo, non c'era un bagno. Io ero seduto vicino al motore. Il rumore era forte e la testa mi faceva male». All'arrivo i migranti hanno trovato accoglienza sull'isola siciliana e Moussa ha avuto il suo primo documento: «C'erano le ambulanze per chi stava male. Non sapevo di essere arrivato in Italia. Non conoscevo nemmeno una parola. Non avevo pensato a dove andare. Volevo solo salvare la mia vita». Ora il giovane ha un permesso di soggiorno «politico» valido fino al 2017, concesso a chi necessita di alta protezione, ma non è ancora tranquillo: «Continuo a pensare alla mia famiglia. Mio fratello da anni è in prigione perché si è opposto al regime, i miei genitori sono rimasti senza nulla. Tempo fa la casa è bruciata. Vorrei aiutarli». Per questo ci vuole un lavoro: il ragazzo ha studiato italiano e seguito un corso per pizzaiolo, ma un'occupazione non l'ha ancora trovata. Ha anche un altro desiderio: «Vorrei cancellare la cicatrice dalla mia faccia» sia perché gli dà fastidio, sia perché «se torno in Ciad tutti capiscono che sono stato tra i ribelli e per me è finita». «I morti li buttavano in acqua» Sidik Farah invece non ha alcuna speranza di tornare in Sudan: «Non ho più nulla». Un fratello è morto, altri familiari sono forse nei campi profughi del Darfur, di loro non sa nulla da molto tempo. Chissà, forse anche loro lo credono morto. L'uomo, che ha ora 33 anni, nel 2001 va in Libia in cerca di lavoro. Lì per 8 anni fa il saldatore. Poi scoppia la guerra: «Vivevo vicino a una caserma; un giorno viene bombardata; così dobbiamo scappare». Nel suo caso è la polizia libica che raduna le persone, gli stranieri e li fa imbarcare. «Ci spingevano tutti colpendo con i manganelli. Io non ho pagato per partire. Non avevo nulla. Solo i vestiti che indossavo». Sulla barca rimane sei giorni con altre 300 persone. «Siano rimasti fermi in mezzo al mare, perché il motore si è rotto. C'erano donne, bambini. Niente acqua, niente cibo. Qualcuno piangeva o si lamentava. Cinque persone sono morte. Sono state buttate in mare. Un bimbo e la mamma no, sono rimasti sulla barca fino all'arrivo». Il rottame con il suo carico umano riesce ad arrivare al porto. «Paura? No. Anche con la guerra o quando sono arrivato, mi sono sentito tranquillo» dice Farah con un fatalismo proprio di chi non ha nulla da perdere. Lui sa che nel suo Paese non tornerà, non gli sarà possibile. A Bergamo non ha perso tempo: ha studiato la lingua, ha frequentato due corsi per saldatore e cerca un lavoro: «Sappiamo che sono tempi difficili per tutti» conclude, mostrando di desiderare solo una vita «normale» e che migrare non è stata una scelta libera, ma una necessità «per la guerra». «Io non avevo alternative: non potevo tornare in Ciad, mi avrebbero imprigionato, in Libia c'era la guerra. Sono partito per salvarmi» ripete Moussa.

fenomenologia del #trasformista

il trasformista è una figura politica tipicamente italiana, che tutti gli italiani ben conoscono ma dal quale molto spesso amano farsi illudere. il fascino del trasformista è quello del camaleonte: non avere una forma definita ma poterle assumere tutte a piacimento e secondo convenienza. il trasformista ovviamente non ha nessun credo e nessuna ideologia, se non la conservazione del proprio potere. e per avere potere bisogna dire alla mitica #laggente quello che vuol sentirsi dire, sempre.

quindi fatalmente trasformismo fa rima con populismo. come disse un vecchio trasformista, il più grande della storia italiana, bisogna saper essere concavi con chi è convesso e convessi con chi è concavo. al popolo bisogna grattare la pancia solleticandone i peggiori istinti, e in questo modo si verrà ricompensati nel segreto delle urne. questo è il volto pubblico e mediatico del trasformista, che ha però anche un volto più tecnico e politico.

anche con i suoi colleghi politici il trasformista sarà tutto e il contrario di tutto, facendo e disfacendo le alleanze più disparate e disperate pur di conservare il potere e azzoppare gli avversari. ma, mentre gestisce nel modo più cinico e disincantato questi intrighi di palazzo, il trasformista deve sempre ammantarsi di una buona causa per non sfigurare con il pubblico dei suoi elettori e clientes.

se ad esempio minaccia di far cadere un governo per interessi personali, dirà che lo fa per salvare i cittadini dalle tasse che il premier cattivo vuole imporre. se vuole mettere la mordacchia ai giudici che si stanno occupando dei suoi affari, dirà che vuole la riforma della giustizia per il bene di tutti i cittadini. il sostegno che il trasformista dà a questo o quello schema di governo si basa unicamente su un calcolo tattico di convenienza personale e di conservazione del potere: ma al popolo il trasformista dirà sempre che si allea con tizio o con caio unicamente per fare il bene del paese per il quale si sta sacrificando.

ma come cade il trasformista? è un mistero, così come è un mistero il segreto della sua ascesa, fatta di un mix di leadership, fascino personale e dirompenza mediatica. come che sia, a un certo punto il trasformista perde il ritmo, sbaglia il passo di danza, fallisce l'ennesimo travestimento in corsa: ed ecco che tutti scoprono il suo pagliaccesco gioco. che gli riesca male l'ultimo colpo di teatro, o spari una balla spaziale troppo spaziale, o non riesca più a dare  la colpa agli altri, o la storia delle tasse da cui dice di proteggerci pur avendocele sempre alzate venga finalmente smascherata... alla fine si trova sempre un bambino capace di gridare che il re è nudo.

e a quel punto il trasformista sta per essere sommerso dalle risate di un popolo intero.

domenica 1 settembre 2013

#Siria: le 10 anzi 11 ragioni contro la #guerra

Livio Caputo su L'Eco di Bergamo del primo settembre riporta le 10 ragioni contro l'intervento militare degli Stati Uniti o di qualche potenza occidentale contro il regime siriano. Sono ragioni forti ma ce n'è una ancora più forte, l'undicesima ragione: l'Islam moderato sta subendo in tutto il mondo la pressione del radicalismo jihadista, che ha dichiarato guerra all'occidente. Per questo l'occidente non puo' provocare con le sue azioni vuoti di potere regionali, che sarebbero prontamente colmati dai qaedisti, come la storia del medio oriente insegna. Elezioni, democrazia son belle parole, ma senza Costituzioni nazionali che vietino l'introduzione della sharia son parole vuote, che apron la porta a dittature teocratiche, per giunta votate alla jihad contro il satana occidentale. Anche Hitler venne eletto democraticamente...

Spiace dirlo, ma Bin Laden ha qui la sua vittoria postuma, costringendo l'occidente a scelte molto amare per contrastare il folle disegno qaedista del califfato islamico mondiale.

Ma ecco le dieci ragioni di Caputo:

" 1 La legalità di un'azione militare è discutibile. Non c'è nessuna probabilità che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, dove Cina e Russia hanno diritto di veto, la approvi e neppure la Lega Araba ha dato luce verde. Anche presentare l'attacco come un intervento umanitario, a tutela della popolazione civile, non ha molta credibilità, perché per due anni e mezzo nessuno si è mosso neppure in presenza di centomila morti. Che differenza c'è, è legittimo chiedersi, se le vittime sono uccise a cannonate o con il gas nervino?

2 Gli esperti dell'Onu non hanno ancora concluso la loro indagine e le uniche prove certe che il gas è stato usato da Assad e non dai ribelli per provocare l'intervento americano (come sostiene il regime) sono alcune intercettazioni di comunicazioni tra i comandi militari siriani.

3 Non si capisce quali risultati pratici possa ottenere una offensiva di due-tre giorni, con missili Tomahawk ed eventuali incursioni aeree. Si potranno distruggere centri di comando, basi aeree e palazzi governativi, ma non i depositi di gas nervino, perché si rischierebbe di produrre un'autentica catastrofe.

4 Per quanto mirati, i bombardamenti farebbero sicuramente vittime anche nella popolazione civile, infliggendo un altro colpo al già difficile rapporto degli Usa con il mondo arabo e fornendo ad Assad una formidabile arma propagandistica.

5 Se anche l'attacco dovesse accelerare la caduta del regime, il risultato sarebbe, probabilmente, l'avvento al potere a Damasco di estremisti islamici ferocemente ostili all'Occidente; la guerra civile comunque non finirebbe, perché le minoranze schierate con Assad dovranno battersi per la sopravvivenza.

6 L'attacco americano, anche se essenzialmente dimostrativo, potrebbe innescare un conflitto generale in Medio Oriente. L'Iran ha già minacciato ritorsioni contro Israele, che non esiterebbe a replicare, e se l'Hezbollah intervenisse a sua volta, il Libano rischierebbe un ritorno alla guerra civile.

7 Sebbene abbia mosso a sua volta la propria flotta verso il Mediterraneo orientale, la Russia, grande protettrice di Assad, non prenderebbe iniziative militari; ma i rapporti tra Mosca e Washington, già pessimi, peggiorerebbero ulteriormente.

8 Il ricorso, sia pure limitato, alle armi da parte americana eliminerebbe ogni possibilità di una soluzione diplomatica, quale è auspicata dalla maggioranza dei Paesi e dallo stesso Ban Ki Moon. La auspicata conferenza di Ginevra sarebbe quasi sicuramente cancellata.

9 Le opinioni pubbliche occidentali, compresa quella americana, sono massicciamente contrarie all'apertura di un nuovo fronte mediorientale dopo la traumatica esperienza dell'Iraq, anche per ragioni economiche.

10 La situazione siriana è talmente complessa, che qualsiasi intervento esterno potrebbe solo aggravarla ulteriormente: come ha scritto - con un certo cinismo - Edward Luttwak, è meglio lasciare che i siriani se la sbrighino da soli, a costo di continuare a combattersi, perché all'Occidente non conviene né una caduta di Assad né una vittoria dei jihadisti che rappresentano il nucleo forte dell'opposizione".

domenica 25 agosto 2013

allo Stato serve lo spesometro

Spesa pubblica record: più 69% in quindici anni Mestre (Venezia) Il Centro studi della Cgia di Mestre ha calcolato che dal 1997 a oggi la spesa pubblica, al netto degli interessi sul debito, è aumentata del 68,7%. In termini assoluti è cresciuta di quasi 296 miliardi. Alla fine del 2013 le uscite, sempre al netto degli interessi, ammonteranno così a 726,6 miliardi. Per contro, le entrate fiscali che comprendono solo tasse, imposte, tributi e contributi pagati dagli italiani, sono cresciute del 52,7%. A fronte di un aumento di 240,8 miliardi, il ammonterà 2013 nel complessivo gettito considerato l'incremento è stato del 58,8%, ma se analizziamo il trend delle tasse locali ci accorgiamo che sono praticamente «esplose»: più 204,3% (pari, in termini assoluti, a +74,4 miliardi di euro), con un gettito che nel 2013 sfiorerà i 111 miliardi. Quelle centrali, invece, sono incrementate «solo» del 38,8% (pari a +102,6 miliardi in valore assoluto), anche se nel 2013 le entrate di competenza dello Stato ammonteranno a ben 367 miliardi di euro. Tutti gli importi, sottolinea ancora la Cgia, sono a prezzi correnti, includono, cioè, anche l'inflazione. In linea generale lo studio afferma che lo scenario emerso da questa analisi vede che la spesa pubblica, al netto degli interessi, ha viaggiato a una velocità superiore a quella registrata dalle entrate fiscali, anche se a livello locale la tassazione ha subito una vera e propria impennata. Ciò ha contribuito ad aumentare il carico fiscale generale, portandolo a toccare un livello mai raggiunto in passato. In aggiunta, alla luce di una spesa pubblica complessiva che in questi anni è sempre stata superiore al totale delle entrate finali, la dimensione del nostro debito pubblico è continuata a crescere in partenza di questa rilevazione, fa notare la Cgia, coincide con l'approvazione della prima legge Bassanini che diede avvio al federalismo amministrativo e alla semplificazione burocratica. «Appare evidente – dice il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi – che qualcosa non ha funzionato. Se i rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione sono materia di federalismo le leggi Bassanini e le riforme di settore che sono state realizzate successivamente non hanno aspettavamo proprio sul fronte della razionalizzazione della spesa e sul suo contenimento a vantaggio dei cittadini».

#Silvio, cessa quest'assurda commedia

Non esiste soluzione politica ai tribunali

Il dibattito politico-istituzionale si sta letteralmente avvitando su un'equazione –l'agibilità politica di Berlusconi come presupposto per la governabilità – del tutto falsa. È come tentare un'impossibile somma, ci insegnavano i maestri alle scuole elementari, mettendo insieme le pere e le mele. Proprio da considerazioni elementari occorre partire per vedere quale gigantesca impostura si nasconda dietro la furoreggiante campagna politica e mediatica che predica la necessità di una «soluzione politica» per la condanna all'ex premier, colpevole e condannato definitivamente per frode fiscale. L'origine dello stravolgimento dei fatti sta proprio nel punto di partenza della richiesta. Fino «a prova contraria», è il caso di dire, una condanna penale è una circostanza che nulla ha a che vedere con la politica, a meno che non si tratti di una condanna per reati politici (di per sé fuori questione in una democrazia). La realtà dei fatti mostra che Berlusconi si è reso colpevole di un reato grave e socialmente esecrabile – sottrarre al fisco 7,3 milioni di euro – in particolare per un imprenditore facoltosissimo. La pretesa di un salvacondotto politico per una condanna giudiziaria sta fuori dal perimetro logico, prima ancora che di quello etico e civile. La questione potrebbe essere, dunque, facilmente rubricata come mancanza di raziocinio o, al peggio, come disturbo psichico di chi la sostiene. Disgraziatamente non è così, perché le ragioni – quelle sì strettamente e direttamente politiche – che stanno alla base delle posizioni del Pdl tendono a stravolgere il rapporto tra legittimazione popolare e legittimità dello Stato di diritto. Giuliano Ferrara – allorché esulta perché, a suo dire, il presidente della Repubblica ha riconosciuto «l'eccezionalità» del caso Berlusconi – compie una duplice forzatura. Piega in modo improprio e fuorviante le sagge parole di Napolitano e, nel contempo, cerca di dar credito alla tesi che essere leader di un partito (per di più di un partito che ha un notevole consenso elettorale) configuri, per ciò stesso, un carattere di diversità rispetto ai cittadini normali. Sarebbe come dire che avere consenso elettorale definisce uno status di privilegio. L'esatto contrario non soltanto della nostra Costituzione e del principio basilare che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma del comune buon senso. In realtà, coloro che sono alla testa di formazioni politiche, ancor più se (come nel caso dell'ex premier) con un passato di responsabilità istituzionali di altissimo livello, dovrebbero ripudiare per principio ogni forma di protezione che non sia espressamente prevista dalle leggi. E magari, come si usava fare sino a qualche decennio fa, chiedere esplicitamente, in caso di vicende giudiziarie, di non valersi delle tutele previste per i parlamentari. A ben vedere, la bislacca tesi del consenso come fattore di garanzia «speciale» ha alla base un presupposto rischiosissimo per la democrazia, quello che la legittimazione popolare ottenuta attraverso il consenso elettorale sia fonte di una legittimità «speciale», che non conosce limiti e non deve essere sottoposta alle regole degli ordinamenti democratici. A voler prendere minimamente sul serio tale idea, si finisce per scivolare verso forme plebiscitarie di derivazione sudamericana che poco hanno in comune con le democrazie vere.

Stefano Sepe
L'Eco di Bergamo 25 08 2013

domenica 18 agosto 2013

i #marò? venduti all' #india. la versione di #terzi

i marò attendono la loro sorte in india
[photo: oggi]
l'ex ministro degi esteri giulio terzi di sant'agata, dal buen retiro del suo feudo bergamasco, torna a parlare del pasticciaccio brutto dei marò e racconta la sua verità in un'intervista esclusiva a l'eco di bergamo. temo che terzi abbia ragione: l'italia ha venduto i marò all'india per interessi economici, creando un pericoloso precedente di violazione del diritto internazionale, che prevede un arbitrato del tribunale dei diritti del mare in caso di conflitto di attribuzione giurisdizionale. noi invece i marò agli indiani glieli abbiamo ceduti, e amen.

non stupisce quindi il recente pasticcio kazako, dove la shalabayeva e figlioletta son state vendute, per analoghe ragioni di interessi economico-politici, al dittatore del kazakistan: e cosa vi aspettavate da un paese che a quelle ragioni sacrifica i suoi stessi soldati, che prendesse a cuore la sorte degli stranieri perseguitati?

come si dice in italialand? o franza o spagna, purché se magna...

ed ecco l'intervista:


«L’Italia sempre meno capace di gestire crisi internazionali»
Giulio Terzi e il caso marò, i rapporti con l’ex premier Monti, la situazione in Egitto e Siria
«Per paura di perdere affari in India abbiamo perso credibilità con gli indiani: disastro»

Intervista di Susanna Pesenti
L'Eco di Bergamo, 18/08/13



Nel silenzio del parco, ritagliato fra i capannoni di Tresolzio, Giulio Terzi di
Sant’Agata rende omaggio alla tradizione del Ferragosto bergamasco, in quel di Brembate
Sopra. E quest’anno riprende anche le forze, dopo le montagne russe pubbliche e private
degli ultimi mesi. Un anno fa era ministro degli Esteri, nel pieno della crisi indiana. Ora,
fuori dalla Farnesina da marzo e chiusa la carriera diplomatica a dicembre, appare disponibile
a parlare con la consueta cortesia e un filo meno (solo un filo) di diplomazia.

Allora i marò tornano a Natale, come si augura Staffan De Mistura? 
«Mah, De Mistura ha detto che sente "vibrazioni" in base alle quali il processo inizierà a settembre e ritiene che debba finire entro dicembre per via della politica indiana. Se sente "good vibrations" come i Beach Boys...».

Sul serio.
«Sul serio, io trovo molto grave che in questi mesi si sia consolidato il principio che l’attività
delle nostre Forze armate all’estero in missione di pace sia giurisdizione di un altro Paese.
Tanti giuristi internazionali vedono un errore nella linea presa dopo il 21 marzo, opposta a
quella decisa l’11 marzo».

Quando i marò erano stati tenuti in Italia, contro i patti di rimandarli in India?
«Tenuti in base al fatto che gli indiani erano inadempienti rispetto alla richiesta di consultazioni bilaterali, mirate a un arbitrato internazionale, obbligatorio secondo il Trattato sulla legge del mare, ratificato da entrambi i Paesi. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, aveva richiesto che la regolamentazione della vicenda avvenisse secondo il diritto internazionale. L’11 marzo avevamo avviato il percorso verso l’arbitrato obbligatorio. Tempo massimo due mesi, il Tribunale dei diritti del mare ci avrebbe detto di chi era la giurisdizione. Se italiana, i marò sarebbero rimasti definitivamente; se indiana, avremmo rispettato l’obbligo internazionale».

Invece il 21 marzo il governo ha capovolto la decisione per motivi di onorabilità internazionale.
«Il 21 marzo è stato il disastro. Si è rovesciato tutto per paura che Finmeccanica perdesse i
suoi affari. Abbiamo perso credibilità con gli indiani (e infatti il nostro export sta andando a
picco) e per fare le cose bene, abbiamo cancellato anche l’azione verso l’arbitrato obbligatorio. Cambiato il governo, il nuovo – penso in omaggio alla linea Monti – continua a non prendere la strada dell’arbitrato e conferma l’incarico a De Mistura, che l’11 marzo aveva dichiarato che il governo nella sua collegialità aveva fatto bene a decidere di mantenere i marò in Italia».

É ancora arrabbiato con Monti?
«Il punto è un altro. La mia prima preoccupazione è che Latorre e Girone tornino. Ma la seconda è che si apra un processo nel quale vi sono elementi che non sono compatibili con il nostro ordinamento. Inoltre, il vulnus che il nostro Paese subisce, sarebbe più grave se l’Italia continuasse a non adire alle
istanze internazionali. Se per fare rispettare la nostra sovranità siamo tenuti a rivolgerci ai
livelli internazionali, non possiamo non farlo. É un tema di sicurezza dello Stato, sono in gioco lo statuto giuridico dei nostri militari, settemila uomini in giro per il mondo, e la tranquillità dei cittadini italiani che devono sentirsi difesi all’estero».

Ce lo spiega perché li avete lasciatientrare in porto?
«Il ministero degli Esteri è stato informato dal comando interforze cinque ore dopo che
l’incidente era accaduto, a quel punto noi abbiamo detto di non farli entrare in acque territoriali, ma la nave era già in porto, attraccata. E ancora adesso subiamo le conseguenze, con questa
commedia di mandare avanti e indietro un negoziatore».

E che ne pensa del caso kazako? 
«La capacità di gestire le crisi, secondo me, sta diminuendo. Non siamo sufficientemente attrezzati perché il concetto di sicurezza nazionale come difesa della sfera di sovranità non è abbastanza presente nell’opinione pubblica e tra gli stessi politici. Dopo la gestione del caso Shalabayeva, qualche accademico è arrivato con l’idea brillante di creare il Consiglio di sicurezza nazionale. C’è già, si chiama Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica. Riunisce la decina di ministri che contano e i Servizi e dovrebbe essere in sessione permanente. L’estate scorsa, proprio per la gestione marò, avevo chiesto un incontro rapido ogni giorno per avere sempre il polso della situazione. Da luglio a dicembre ci saranno stati quattro incontri. C’è un deficit di attenzione sui temi internazionali. E quindi, quando arriva la crisi, la reazione è scomposta».

Detto da un ex ministro degli Esteri fa un po’ paura.
«La politica estera è poco sexy per l’opinione pubblica, il politico pensa che il cittadino sia attirato più dalle tasse che dalle elezioni in Mali, ed è vero, se non gli spieghi che le elezioni in Mali influenzano anche il suo futuro. L’indifferenza parlamentare indebolisce l’azione del governo quando capita la crisi perché, invece di ragionamenti, ottieni umori».

martedì 30 luglio 2013

Fear and Desire: la #guerra di #Kubrick

Ho visto Fear and Desire, opera prima di Stanley Kubrick (1953) restaurata dalla Library of Congress e proiettata in questi giorni al cinema. Poco più di un saggio o tesi di laurea di uno studente di arti cinematografiche, così pensò l'autore che non volle mai valorizzare la pellicola, anzi la semiripudiò. E in effetti la prova è acerba, la mano ancora incerta, lo svolgimento del plot troppo lento, come risentisse della lezione dei drammi didattici di Brecht.

Il tema del film è la guerra, raccontata attraverso la storia dell'equipaggio di un aereo caduto 6 miglia entro le linee nemiche. Cosa colpisce di Fear and Desire? L'uso ossessivo dei campi e controcampi nei primi piani, che risente di Ejzenstein e Hitchcock. La scena espressionista (influenzata dal maestro della Corazzata Potjomkin) del sangue dei nemici che gocciola nel piatto di spezzatino che stavano mangiando quando vengono uccisi. Ma sopratutto la concezione della guerra (o forse la vita?) come favola narrata da un idiota, tratta dalla Tempesta di Shakespeare che non a caso viene citata dal più folle dei soldati del gruppo.

Qui si ritrova nientemeno che il tema della seconda parte di Full Metal Jacket (film di Kubrick uscito nel 1987), la totale autoreferenzialità e demenza mortifera della guerra, un mondo a parte dove l'uomo da essere senziente  viene degradato ad ingranaggio del caos e strumento della morte.

E questa visione, già così chiaramente resa in un film per quanto acerbo e non all'altezza della perfezione kubrickiana, vale il prezzo del biglietto.

martedì 23 luglio 2013

#governo, incentivi e stimolo alla #ripresa

L'economista prof: Tancredi Bianchi
[photo: L'Eco di Bergamo]

Se il governo potesse guidare serenamente il Paese, potrebbe non tenere in prima considerazione preoccupazioni elettorali e di partito e, anziché ricercare gli incentivi della ripresa in Imu e Iva, stimolerebbe le iniziative di investimenti, vera fonte di nuova occupazione, con la moderata tassazione, o anche la temporanea esenzione, del «nuovo». Ossia di quanto giova per cambiare o implementare l’esistente. Val dire, seguirebbe la strada più antica del buon governo dell’economia: una politica perpremiare chi vuole intraprendere e cooperare all’impresa. L’Italia si salvò così tante volte: con le esenzioni venticinquennali sui nuovi immobili; con
l’esenzione decennale dei redditi delle nuove imprese; con gli ammortamenti accelerati per i nuovi investimenti... Le agevolazioni tributarie per il
«nuovo» riguardano appunto il futuro, che tutti desideriamo migliore del presente. Non minacciano di porre in disordine i conti pubblici. Attendono nuove entrate dalla produzione di nuova ricchezza e da una società nuova che ha ritrovato la speranza.

Tancredi Bianchi, L'Eco di Bergamo 24/07/13

venerdì 19 luglio 2013

ascesa e caduta della #lega nord


Pontida: l'auto-mito fondativo della Lega Nord
[photo: iltafano]
LEGA ADDIO

INESORABILE
DECLINO
DI UN’IDEA

di  GIOVANNI COMINELLI
L'Eco di Bergamo, 19/07/13

Al cospetto del dramma del declino politico-culturale della Lega, serve il consiglio di Baruch Spinoza, filosofo ebreo olandese del ’600: nec ridere, nec lugere, sed intelligere. Né ridere, né piangere, ma capire le ragioni. La prima è stata l’incapacità della Lega di pensare l’Italia intera, mentre si proponeva come paladina degli interessi del Nord. La seconda: aver praticato un modello carismatico illiberale di organizzazione politica. Quando, tra gli anni ’70 e ’80, i ceti produttivi conquistarono la percezione che il Nord veniva saccheggiato dallo Stato

centrale, il quale poi distribuiva con criteri politico-clientelari lungo i canali del Centro-Sud, Bossi investì su quella presa di coscienza, che era e resta vera. Mentre l’intero sistema politico rappresentava la Questione meridionale, Bossi costruì unmovimento per la Questione settentrionale.

Quei ceti continuarono, tuttavia, a turarsi il naso e a votare Dc, che li proteggeva dal «comunismo». La caduta del quale nel novembre del 1989 li liberò. Nel giro di pochi anni Questione settentrionale, Tangentopoli, movimento referendario e Questione morale costituirono un terreno fecondo per la Lega. Ma essa non riuscì a fare il salto politico-culturale necessario per proporre all’intero Paese un nuovo progetto storico, politico e istituzionale. Gianfranco Miglio ci aveva provato con la sua ipotesi di tre macro-regioni e un nuovo assetto politico-istituzionale presidenziale e federalista «alla Svizzera». Venne liquidato con disprezzo.

Mentre sul piano progettuale Bossi oscillò vistosamente tra «secessione» e «federalismo», su
quello politico scelse l’alleanza con Berlusconi, che a sua volta teneva all’alleanza con Fini. Il senatùr
si illuse che bastasse, ai fini della difesa degli interessi del Nord, far valere i rapporti di forza all’interno della coalizione. Così il vino del federalismo, mischiato con padanismo, celtismo e localismo da
«piccola patria», etnofobia ai limiti del razzismo, arrivò annacquato all’appuntamento del 2001,
quando Berlusconi, Fini e Bossi conquistarono il governo.

Berlusconi ha distrutto lentamente Fini e Bossi, mentre i ministri di quest’ultimo rimanevano
impaniati nelle trame della politica nazionale e urtavano impotenti contro il muro di una burocrazia amministrativa statale onnipotente, assai più solido di quello di Berlino. La «ridotta del Nord» a
poco a poco si è ristretta alle valli e ha cominciato a disfarsi.

E qui siamo alla seconda ragione della crisi, che riguarda il modello di organizzazione politica.
Quello carismatico illiberale, tipico degli anni ’30, adottato da Bossi, deve fare i conti, oggi, nell’epoca della comunicazione globale, con la domanda di trasparenza quotidiana. Vedasi alla voce Di Pietro
e Grillo. Il carisma ha bisogno di successi qui e ora per durare. Non si sono visti. Ed è esposto allo
sguardo severo dei cittadini, che osservano quotidianamente i movimenti dei politici come quelli
dei pesci in un acquario. Nessun cerchio ristretto, oramai, è magico. Il caso del tesoriere infedele Belsito è nato su questo terreno.

Per uscire dalla palude, la Lega è ora tentata di appoggiarsi alle correnti pre-moderne, etnofobe
e/o razziste, che sono attive, ma minoritarie in tutta Europa. Così facendo tradisce anche la propria
ispirazione originaria. Perché il declino della Lega è un dramma? Perché il suo fallimento si porta via
illusioni, speranze e militanza di qualche milione di cittadini. E ora? L’Italia avrebbe bisogno di un
federalismo cattolico, liberale e democratico.

Ma i partiti democratici non sono federalisti, e quelli federalisti non sono democratici. Non è un dramma?

sabato 13 luglio 2013

affaire #shalabayeva: finalmente l' #italia non è più mammona!

alma shalabayeva: il passaporto kazako
[photo: ansa]
più particolari apprendo sulla vicenda shalabayeva, più sono fiero di essere italiano. la storia è complicata e semplice ad un tempo. la signora è la moglie di mukhtar ablyazov, ex ministro, ex banchiere e massimo oppositore del regime kazako. come spesso accade in questi casi, il dittatore che governa il paese ha accusato il dissidente di malversazioni finanziarie: vere, false, verosimili? non sappiamo, anche se sarebbe ingenuo spacciare per una vergine dai candidi manti un ex oligarca di uno stato ex sovietico. ma comunque molto comode, queste accuse, per poter sbattere in galera un oppositore attivo dal fronte internazionale e finanziariamente spregiudicato come ablyazov. il nostro dissidente quindi è ricercato dall'interpol, salvo che londra gli dà asilo politico e non accetta questo mandato di cattura.

ed ecco entrare in gioco il nostro strano bel paese. la moglie di ablyazov, invece di restare col marito a londra, per qualche motivo ha pensato bene di stabilirsi con la figlia di sei anni a roma in una villa di casalpalocco. dato che nella vicenda scopriamo che la signora ha una tremenda paura di venire uccisa, il motivo potrebbe essere semplicemente quello di dividere la famiglia per mettere in sicurezza moglie e figlioletta. a fine maggio l'ambasciata kazaka  segnala prima alla questura di roma e poi al ministero degli interni la presenza del dissidente nella villa di casalpalocco, e chiede di arrestarlo in base al mandato di cattura dell'interpol. la notte tra il 28 e il 29 maggio la polizia organizza quindi una battuta di caccia grossa, dispiegando ben 50 uomini della digos che cingono d'assedio e poi espugnano la villetta. del dissidente nessuna traccia, quindi i nostri si concentrano su due succulente prede: la moglie e la figlia.

la signora, in preda al panico, commette l'errore che le sarà fatale: temendo che i 50 in borghese dell'irruzione in casa sua non siano poliziotti ma un commando di sicari, per paura di essere riconosciuta come la moglie del dissidente esibisce un passaporto della repubblica centrafricana. una kazaka, bianca e con gli occhi a mandorla, cittadina africana?  sicuramente deve trattarsi di un passaporto falso! sulla base di questo pilastro logico la questura di roma dispone per l'espulsione della shalabayeva e figlia. il tutto  senza fare controlli sulla autenticità del passaporto centrafricano, come richiede disperatamente la signora, e senza considerare l'altro passaporto, quello kazako, e il permesso di soggiorno italiano della donna. e questo nonostante la stessa, una volta in questura, racconti al dirigente del servizio immigrazione chi è suo marito e perché lei si trova in italia con la figlia.

quando viene portata al centro di identificazione ed espulsione, separata dalla figlia, la shalabayeva capisce cosa sta succedendo e comincia a chiedere asilo politico in russo e inglese, non sapendo l'italiano. ma nessuno raccoglie e formalizza la sua richiesta. tramite un'altra figlia ventiquattrenne, residente in svizzera, riesce ad assumere un avvocato del foro di roma, che però non ha accesso alle carte.

nel frattempo l'ambasciata kazaka, zitta zitta, noleggia un jet privato e lo parcheggia a ciampino. e in poco più di 48 ore, nella tarda mattinata del 31 maggio,  shalabayeva e figlia vengono accolte dal console kazako sull'aereo che le riporta in patria. quel pomeriggio l'avvocato attendeva l'orario di apertura del CIE per formalizzare la richiesta di asilo politico: troppo tardi, beffato da un'espulsione su commissione, pilotata a tempo di record da una burocrazia poliziesca  insolitamente efficientissima e solerte.

come è finita la storia? il passaporto centrafricano della signora era regolarissimo, tanto che poi il premier letta due mesi dopo è costretto a farne revocare l'espulsione. il che ha un sapore ancor più beffardo, dato che nel frattempo la shalabayeva è inchiodata in kazakistan: non è agli arresti ma non può lasciare la capitale, in quanto prontamente indagata per tangenti atte a procurarsi il passaporto centrafricano. il marito dissidente da londra ringrazia letta, pur manifestando il fondatissimo timore che quando i riflettori mediatici si spegneranno la moglie finisca in carcere e la bambina in brefotrofio. ad ogni modo le due donne potranno in qualsiasi momento venire usate come arma di ricatto contro di lui.

a roma i ministri di interni ed esteri si palleggiano il solito scaricabarile, da cui emerge persino un fax inviato dalla questura romana alla farnesina per chiedere informazioni sulla shalabayeva prima dell'espulsione.i media ricordano che il dittatore kazako nursultan nazarbayev, oltre a vendere gas e petrolio anche all'italia, è amico personale di silvio berlusconi, capo partito (anzi capo tout court) del ministro degli interni angelino alfano. anzi qualche complottista sospetta addirittura che silvio sia socio occulto di nazarbayev nell'affare del petrolio e del gas. come che sia, salta fuori che l'ambasciatore kazako ha parlato, nelle ore cruciali precedenti l'espulsione, con il capo di gabinetto di alfano e con i massimi vertici della questura romana. quindi non solo la farnesina ma pure il viminale era informato sulla vicenda. come prevedibile ora a volare saranno gli stracci, ovvero i vertici della questura romana e forse qualche alto funzionario ministeriale, ma senza toccare il livello politico governativo.

i ministri degli interni e degli esteri, alfano e bonino, giurano e spergiurano la loro ignoranza sulla vicenda, quasi non fosse una toppa peggiore del buco. i media, la politica e la pubblica opinione si chiedono se per caso non si sia trattato di una extraordinary rendition stile cia camuffata da procedura burocratica.

io invece, come dicevo all'inizio, sono fiero. orgoglioso di appartenere ad un paese finalmente libero dal giogo del suo retaggio culturale familista e mammone, al punto da rispedire una mamma e la figlia seienne tra le fauci di un dittatore che gode fama internazionale di torturatore.

così si fa. anzi la prossima volta torturiamole noi a roma per procura: famo prima.