giovedì 31 ottobre 2013

√ #lagabbia l' #euro? un progetto marxiano lasciato a metà

euro sì euro no euro come? ecco il tormentone che fa da fil rouge prima a "l'ultima parola" e ora a "la gabbia", il talk show del mercoledì sera su la7, condotto dall'ereticale gianluigi paragone. unico contenitore di idee non allineate col mainstream, il programma accende i riflettori sul vero fulcro politico dell'italia attuale, ossia l'europa e la valuta unica, la BCE e il fondo salvastati: insomma è l'economia, baby. come nota lo stesso paragone, mentre i media mainstream ci bambocciavano con il cavaliere, ruby, i processi, la riforma silviana della giustizia, nonché le vicende di bossi e il suo trota, passava sotto silenzio il tema-macigno del secolo, quel trattato del fiscal compact che ci lega al carro europeo a prezzo di pesantissime manovre annuali per i prossimi 20 anni. misure draconiane per passare da cicale a formiche, misure che gli italiani avrebbero anche potuto accettare, se solo qualcuno si fosse degnato di spiegargliele e motivargliele.

il mio pensierino da bar sul progetto-euro è che si tratti di un disegno non marxista ma marxiano (nel senso non dei fratelli ma di carlo). l'idea che dalla struttura (economica) scaturisca la sovrastruttura (politica, sociale e culturale) rimanda a marx, o almeno al marx masticato dagli economisti che han dato un esame di storia delle dottrine economiche all'università. unifichiamo la moneta e da lì arriverà il single market europeo, dalla libera circolazione di cittadini, merci e servizi si giungerà alfine alla fusione dei popoli entro un'unica identità europea. dall'euro agli stati uniti d'europa insomma. il progetto è ambizioso e affascinante, ma troppo ingenuamente e scolasticamente marxiano: non basta (è sotto gli occhi di tutti) l'unità valutaria se non abbiamo una vera cabina di regia condivisa democraticamente che gestisca l'unificazione politica, legislativa, militare, fiscale del vecchio continente.

le attuali istituzioni europee sono a metà del guado e rappresentano l'unificazione peggiore, quella fatta a metà che lascia gli stati in concorrenza tra loro per attrarre investimenti in cambio di sgravi fiscali, e tutti i "vecchi" stati europei impegnati nel gioco del sospetto reciproco e dello scaricabarile delle responsabilità economiche e politiche che ci hanno portati all'attuale crisi dell'eurozona. a questo punto solo la condivisione di sovranità (non cessione come si dice riduttivamente, ma condivisione su un piano più alto) con la creazione di un vero super-stato federale europeo dotato di personalità giuridica e identità politica potrà salvarci dalla fusione fredda. cos'è la fusione fredda europea? è quella praticata dalle istituzioni finanziarie comunitarie come BCE e ESM (fondo salva-stati), importantissime ma prive di reale identità politica e dipendenti dalla continua, estenuante negoziazione tra i rappresentanti dei paesi membri. questa è la cessione (e non vera condivisione) di sovranità che non vogliamo, l'espropriazione strisciante del potere decisionale del popolo da parte degli eurogrigiocrati non eletti, che rispondono (forse) al potere politico che li ha nominati o ha influenzato la loro nomina, ma sono lontanissime dal popolo che manco conosce i loro nomi né tantomeno sa cosa combinano nelle loro austere stanze dei bottoni, salvo essere legato mani e piedi alle loro decisioni. europa, lasci o raddoppi?

martedì 29 ottobre 2013

#Social #media #marketing o morte

«Pmi, usate Twitter e Facebook» Piace il guru dei social network Ben 150 imprese presenti nella sede di Confindustria per ascoltare Maz Nadjm «Con i nuovi mezzi le imprese possono capire le esigenze dei potenziali clienti»
di Mariagrazia Mazzoleni

Platea giovane e look informale, relatori compresi. Ad ascoltare Maz Nadjm, il guru dei social media, ieri si sono presentate centocinquanta imprese bergamasche. Ma le adesioni, causa capienza della sala, hanno dovuto essere stoppate a poco più di una settimana dall'apertura dell'evento, promosso dai servizi innovativi e tecnologici di Confindustria in collaborazione con la società di marketing Multiconsult. Jeans e maglioncino rosso nella sede di Confindustria Bergamo, il quarantenne inglese - definito nel 2011 dal The Sunday Times e nel 2012 da Forbes tra i cinquanta professionisti più influenti al mondo, nell'ambito dei social network - ha dispensato consigli sui nuovi luoghi del business. E se nelle nuove piazze ci stanno i clienti della sua società, SoMazi, (dalla Bbc all'American Express, dal Chelsea Football Club a Sky, dalla Nestle a Expedia e alla British Airways) c'è posto comunque anche per le imprese di casa nostra. Che, a considerare dal numero dei presenti all'incontro -moderato da Giovanna Ricuperati, amministratore delegato di Multiconsult - su questa opportunità hanno cominciato almeno a ragionarci. Insomma qualcosa si muove anche in chiave local, soprattutto nel settore dei prodotti di consumo.

«La comunicazione via social media raggiunge rapidamente le grandi masse (circa un miliardo e mezzo nel mondo sono le persone che li frequentano) e in questa piazza - sostiene Nadjm -tendono tutti ad essere molto trasparenti. A condividere pareri e suggerimenti su quello che piace o che non piace. Quindi le aziende, quelle di 40.000 dipendenti come quelle di 50 addetti, hanno un doppio interesse per starci: informare da un lato e ascoltare dall'altro, per capire le esigenze dei potenziali clienti. Anzi per le imprese più piccole è sicuramente più vantaggioso perché l'utilizzo dei social è molto meno costoso di altre forme di pubblicità».

Nato come programmatore, Maz Nadjm, deve la sua fortuna al fatto di aver intuito già dieci anni fa - Facebook era ancora agli albori - l'importanza dei social. Da Twitter a Linkedin, da Facebook a Instagram, passando per Google: «Ognuno ha una propria specificità - ha ricordato il fondatore di SoMazi - ma non bisogna dimenticare che in tutti si confrontano esseri umani e quindi le informazioni devono essere sempre leali, trasparenti, autentiche e a lungo termine, perché dirette a persone che a loro volta trasferiranno il loro giudizio, positivo o negativo, ad amici e followers».

In rete si scambiano opinioni e si formano le decisioni di buyer e consumatori. Una presenza professionale sul web non è più un'opzione o una scelta, ma una necessità, sia in ambito «B2B» (business to business) che «B2C» (business to consumer). Tanto più che i social non sono solo uno strumento legato al processo di vendita, ma abbracciano tutta l'attività, dallo studio e definizione del prodotto, al percorso di distribuzione, fino al customer service. Ragionare in chiave social vuol dire quindi mettere alla prova tutta l'azienda. Con un ulteriore vantaggio: si tratta di iniziative misurabili, il ritorno è immediatamente verificabile.

Ad entrare nei dettagli è stato Luca Bonfanti, responsabile area sociale network di Multiconsult, intervenuto al convegno con Fabio Rezzoagli (Linkedin Italia) e Angela Falotico (Tsw, società leader in Italia nello sviluppo di piattaforme di e-commerce). «Ci sono almeno tre indici di misurazione - ha spiegato -, il fatturato generato (quanti contatti sono arrivati all'e-commerce), la visibilità data all'azienda (che può essere comparata con i costi della pubblicità cartacea) e la riduzione immediata dei costi (in rete si danno risposte e assistenza che prima avvenivano via telefono)». «I social - ha ribadito Bonfanti - sono quindi utili per qualunque tipo di impresa e di qualsiasi dimensione. Anche in Bergamasca siamo passati dalla fase in cui venivano considerati poco più di un gioco, a quella in cui si riconosceva una potenzialità di business, per entrare ora nella terza fase relativa alla valutazione di questo strumento come area d'investimento. È stato stravolto anche il modo di lavorare nel marketing. È ormai statistico, infatti, che il 60-70% del processo d'acquisto di un cliente si è completato ancora prima che il consumatore contatti l'azienda».

Passaparola digitale, piazza virtuale più grande al mondo, le definizioni si sprecano. Una cosa è chiara - tentando un'estrema sintesi del convegno - se le imprese bergamasche vogliono continuare a vendere, devono esserci.

L'Eco di Bergamo 29/10/13

lunedì 14 ottobre 2013

#olivati a #lagabbia 09/10/13: ipotesi #amnindulto? una schifezza


dopo un serrato confronto televisivo in diretta tra movimento 5 stelle e larghe intese, arriva  il mio telegrafico intervento al talk show "La gabbia" di mercoledì 09/10/13 (condotto da gianluigi paragone su La7) sull'ipotesi di indulto o amnistia avanzata in questi giorni dalle forze politiche governative.

il dibattito infiammato sulla rete e in televissione intorno al tema giutizia/amnindulto/berlusconi ci dice che l'opinione pubblica è esasperata. anche stavolta finirà tutto a tarallucci e vino? intanto la distanza tra il popolo e il palazzo cresce, ogni giorno di più.

di seguito riporto una conversazione su facebook con un collega genovese sul tema carceri, che ha anche un risvolto immobiliare. come si vede le soluzioni spendibili sono diverse; sempre che la politica non opti, come sempre, per soluzioni tampone come indulto o amnistia ("amnindulto"), che oltre ad offendere i cittadini onesti lasciano incancrenire di nuovo il problema del sovraffollamento delle carceri nel giro di un paio d'anni, come successe per l'indulto del 2006.
  • Conversazione iniziata Mercoledì
  • Manuel Giampaolo Lanata
    Manuel Giampaolo Lanata

    Caro Giuliano, ho condiviso in pieno il tuo intervento contro l'indulto alla Gabbia che sto guardando. Bravo!
  • Giuliano Olivati
    Giuliano Olivati

    grazie. siamo tutti esasperati. mobbasta
  • Giovedì
  • Manuel Giampaolo Lanata
    Manuel Giampaolo Lanata

    L'argomento carceri è tornato d'attualità ma, come sempre, anzichè soluzioni definitive si cercano scorciatoie temporanee. Ti propongo una mia piccola indagine e considerazione di qualche mese fa: se ti trova concorde e vorrai farla tua, e magari e portarla alla ribalta della Gabbia, non avró certo nulla in contrario: In Italia un detenuto costa 119 E al giorno (in carceri da terzo mondo), in Spagna costa la metà e in Francia costa 100 E (ma lì le carceri sono modello!). 119 per 365 per 66 mila detenuti (tanti sono in Italia) fanno quasi 3 miliardi di E all'anno pagati dallo stato italiano. La CCA (www.cca.com) è un'azienda privata che ha costruito e gestisce oltre 60 penitenziari in Europa (non so quanti nel mondo) e che, rispettando standard qualitativi altissimi, chiede allo stato meno di 30 E al giorno per ciascun detenuto, cioè un quarto di quanto spendiamo adesso. Affidare tutti i nostri detenuti a questa azienda ci farebbe risparmiare tre quarti dei suddetti tre miliardi all'anno e risolverebbe il problema delle carceri italiane "da terzo mondo". Questa soluzione, peró, si scontra col vizio dell'italica politica di magnare ovunque e, pertanto, non verrà mai adottata. Intanto paghiamo noi.
  • Giuliano Olivati
    Giuliano Olivati

    convengo manuel e ti ringrazio. aziende private potrebbero prendere in appalto le caserme inutilizzate e invendibili in ogni città e avremmo risolto emergenza carceri. ma è troppo intelligente, naa

giovedì 3 ottobre 2013

#Lampedusa, l'#Europa non puo' negare asilo politico

«La fuga dalle torture in Ciad La Libia, il mare e poi l'Italia» Moussa, a 17 anni, scappato dalla guerra: non so niente dei miei cari. Sidik dal Sudan su un barcone: rotto il motore, in balia delle onde.

Laura Arnoldi, L'Eco di Bergamo 4/10/13

La paura Moussa l'ha ancora negli occhi, nonostante sia in Italia dal 13 agosto 2011, arrivato a bordo di un barcone partito dalla Libia. Alle spalle si è lasciato la prigione, i ribelli, un Paese – il Ciad – in cui non può tornare. In Italia ci è arrivato per caso: non l'ha scelta come meta del suo viaggio. «Io non conoscevo l'Italia – dice –, ero solo stato in Africa». Il giovane è uno degli oltre trecento profughi accolti dalla Caritas diocesana bergamasca nell'ambito del progetto biennale di accoglienza per l'Emergenza Nord Africa. In viaggio dal Ciad all'Italia Moussa Barko Sidik ha più o meno 22 anni: «Non conosco esattamente la mia età – dice –: in Ciad abitavo in campagna e non si viene registrati». Sarà per questo che conserva con tanta cura il tesserino di identità che ha ricevuto al suo arrivo a Lampedusa: «È tutto rovinato, ormai. Non vale più, ma lo tengo sempre con me». Lo toglie dal portafoglio, lo mostra e si percepisce che per lui ha un valore immenso. Rispetto a un qualsiasi coetaneo Moussa ha vissuto esperienze terribili. Ha più volte rischiato di morire. Diventa adulto in fretta quando nel 2008 entra nelle truppe dei ribelli: «Combattevamo contro il governo». A quel periodo risalgono le cicatrici che ha sul corpo: «Una bomba è scoppiata e mi sono bruciato», mentre parla si tocca il petto e il volto. Viene catturato dalla polizia, portato in prigione. Erano in cinque: uno viene ucciso subito al momento dell'arresto perché ha con sé dei documenti dell'esercito ribelle, un altro muore dopo che gli agenti, che torturavano i prigionieri, gli tengono la testa sott'acqua. Così appena possibile scappa dal carcere: «Il soffitto era una gabbia di metallo, ma non molto forte e duro». Si nasconde da un parente che lo ospita per un mese e alla fine gli dà il denaro sufficiente per lasciare il Ciad. «Ho passato la frontiera e attraversato il Niger su un'auto. Eravamo in più persone che non conoscevo». Il mezzo dopo qualche giorno giunge a Tripoli («Durante il viaggio stavo male, avevo la febbre, non ricordo bene cosa è successo») e qui si imbarca. «Siamo rimasti in mare per tre giorni, avevo paura, la barca era piena, con centinaia di persone, non ci si poteva muovere. C'era gente dal Ghana, dal Niger, dalla Somalia, dall'Etiopia. Non avevamo né acqua, né cibo, non c'era un bagno. Io ero seduto vicino al motore. Il rumore era forte e la testa mi faceva male». All'arrivo i migranti hanno trovato accoglienza sull'isola siciliana e Moussa ha avuto il suo primo documento: «C'erano le ambulanze per chi stava male. Non sapevo di essere arrivato in Italia. Non conoscevo nemmeno una parola. Non avevo pensato a dove andare. Volevo solo salvare la mia vita». Ora il giovane ha un permesso di soggiorno «politico» valido fino al 2017, concesso a chi necessita di alta protezione, ma non è ancora tranquillo: «Continuo a pensare alla mia famiglia. Mio fratello da anni è in prigione perché si è opposto al regime, i miei genitori sono rimasti senza nulla. Tempo fa la casa è bruciata. Vorrei aiutarli». Per questo ci vuole un lavoro: il ragazzo ha studiato italiano e seguito un corso per pizzaiolo, ma un'occupazione non l'ha ancora trovata. Ha anche un altro desiderio: «Vorrei cancellare la cicatrice dalla mia faccia» sia perché gli dà fastidio, sia perché «se torno in Ciad tutti capiscono che sono stato tra i ribelli e per me è finita». «I morti li buttavano in acqua» Sidik Farah invece non ha alcuna speranza di tornare in Sudan: «Non ho più nulla». Un fratello è morto, altri familiari sono forse nei campi profughi del Darfur, di loro non sa nulla da molto tempo. Chissà, forse anche loro lo credono morto. L'uomo, che ha ora 33 anni, nel 2001 va in Libia in cerca di lavoro. Lì per 8 anni fa il saldatore. Poi scoppia la guerra: «Vivevo vicino a una caserma; un giorno viene bombardata; così dobbiamo scappare». Nel suo caso è la polizia libica che raduna le persone, gli stranieri e li fa imbarcare. «Ci spingevano tutti colpendo con i manganelli. Io non ho pagato per partire. Non avevo nulla. Solo i vestiti che indossavo». Sulla barca rimane sei giorni con altre 300 persone. «Siano rimasti fermi in mezzo al mare, perché il motore si è rotto. C'erano donne, bambini. Niente acqua, niente cibo. Qualcuno piangeva o si lamentava. Cinque persone sono morte. Sono state buttate in mare. Un bimbo e la mamma no, sono rimasti sulla barca fino all'arrivo». Il rottame con il suo carico umano riesce ad arrivare al porto. «Paura? No. Anche con la guerra o quando sono arrivato, mi sono sentito tranquillo» dice Farah con un fatalismo proprio di chi non ha nulla da perdere. Lui sa che nel suo Paese non tornerà, non gli sarà possibile. A Bergamo non ha perso tempo: ha studiato la lingua, ha frequentato due corsi per saldatore e cerca un lavoro: «Sappiamo che sono tempi difficili per tutti» conclude, mostrando di desiderare solo una vita «normale» e che migrare non è stata una scelta libera, ma una necessità «per la guerra». «Io non avevo alternative: non potevo tornare in Ciad, mi avrebbero imprigionato, in Libia c'era la guerra. Sono partito per salvarmi» ripete Moussa.

fenomenologia del #trasformista

il trasformista è una figura politica tipicamente italiana, che tutti gli italiani ben conoscono ma dal quale molto spesso amano farsi illudere. il fascino del trasformista è quello del camaleonte: non avere una forma definita ma poterle assumere tutte a piacimento e secondo convenienza. il trasformista ovviamente non ha nessun credo e nessuna ideologia, se non la conservazione del proprio potere. e per avere potere bisogna dire alla mitica #laggente quello che vuol sentirsi dire, sempre.

quindi fatalmente trasformismo fa rima con populismo. come disse un vecchio trasformista, il più grande della storia italiana, bisogna saper essere concavi con chi è convesso e convessi con chi è concavo. al popolo bisogna grattare la pancia solleticandone i peggiori istinti, e in questo modo si verrà ricompensati nel segreto delle urne. questo è il volto pubblico e mediatico del trasformista, che ha però anche un volto più tecnico e politico.

anche con i suoi colleghi politici il trasformista sarà tutto e il contrario di tutto, facendo e disfacendo le alleanze più disparate e disperate pur di conservare il potere e azzoppare gli avversari. ma, mentre gestisce nel modo più cinico e disincantato questi intrighi di palazzo, il trasformista deve sempre ammantarsi di una buona causa per non sfigurare con il pubblico dei suoi elettori e clientes.

se ad esempio minaccia di far cadere un governo per interessi personali, dirà che lo fa per salvare i cittadini dalle tasse che il premier cattivo vuole imporre. se vuole mettere la mordacchia ai giudici che si stanno occupando dei suoi affari, dirà che vuole la riforma della giustizia per il bene di tutti i cittadini. il sostegno che il trasformista dà a questo o quello schema di governo si basa unicamente su un calcolo tattico di convenienza personale e di conservazione del potere: ma al popolo il trasformista dirà sempre che si allea con tizio o con caio unicamente per fare il bene del paese per il quale si sta sacrificando.

ma come cade il trasformista? è un mistero, così come è un mistero il segreto della sua ascesa, fatta di un mix di leadership, fascino personale e dirompenza mediatica. come che sia, a un certo punto il trasformista perde il ritmo, sbaglia il passo di danza, fallisce l'ennesimo travestimento in corsa: ed ecco che tutti scoprono il suo pagliaccesco gioco. che gli riesca male l'ultimo colpo di teatro, o spari una balla spaziale troppo spaziale, o non riesca più a dare  la colpa agli altri, o la storia delle tasse da cui dice di proteggerci pur avendocele sempre alzate venga finalmente smascherata... alla fine si trova sempre un bambino capace di gridare che il re è nudo.

e a quel punto il trasformista sta per essere sommerso dalle risate di un popolo intero.