sabato 24 maggio 2014

Italia al collasso se lasciasse l'euro

Italia al collasso se lasciasse l’euro
Il fronte anti-Ue frastagliato e diviso

L'Eco di Bergamo, 21/05/14

L’euro ha fatto bene all’Italia e abbandonarlo vorrebbe dire rischiare il default. Lo afferma Paolo Magri, direttore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano. Per l’analista, che è un bocconiano di Bergamo, decisive saranno la crescita e la lotta alla disoccupazione.

Dinanzi all’offensiva antieuro, l’opinione pubblica fatica a vedere i vantaggi della moneta unica.

«Negli anni ‘90 l’Italia pagava per indebitarsi fino al 12% di interessi. I mercati internazionali – ovvero chi ci prestava i soldi – non si fidavano dell’Italia e dell’uso che faceva della lira. Per quanto paradossale possa sembrare, con l’euro l’Italia ha acquisito quote di sovranità in campo monetario che non aveva più, quanto meno perché adesso partecipa alle decisioni della Bce – invece di soccombere alle decisioni della potente Bundesbank del marco –: anzi, ne esprime il presidente, Mario Draghi».

Uscire dall’eurozona che conseguenze avrebbe?

«Anzitutto sarebbe una decisione da prendere in gran segreto per evitare enormi fughe di capitali all’estero. La lira si svaluterebbe molto, ma i guadagni per le imprese che esportano rischierebbero di essere compensati dall’impennata dei prezzi delle risorse energetiche (che si pagano in dollari). La conseguenza probabilmente più drammatica sarebbe sul debito pubblico. L’inflazione ne ridurrebbe il peso reale, ma la sfiducia dei mercati farebbe schizzare in alto gli interessi, con il rischio di rendere insostenibili gli oltre 2.000 miliardi di euro di debito. Il default dell’Italia potrebbe essere dietro l’angolo».

Non pensa che la contraddizione dell’Ue sia il mancato equilibrio fra ciò che è necessario fare in economia e ciò che è possibile fare sul piano del consenso politico?

«Il caso italiano è emblematico: un Paese fortemente europeista, ma dallo scoppio della crisi il consenso è crollato. Se i cittadini percepiscono solo i vincoli dell’Ue e non le opportunità, è inevitabile che il consenso crolli. Quel che conta è tornare a tassi di crescita sostenuti e combattere la disoccupazione>.

Non pensa che vi sia anche una responsabilità delle classi dirigenti?

«Se si guarda alle varie misure prese dallo scoppio della crisi i poteri della Commissione Ue sono aumentati. L’impressione è che però si vada verso un’Europa intergovernativa in cui i governi prendono – quando trovano l’accordo – le decisioni. Questo perché i Trattati Ue non erano stati pensati per affrontare una crisi così profonda e i governi hanno dovuto prendere l’iniziativa per rispondere con velocità, in assenza di adeguati strumenti giuridici. Ma quando le nuove regole introdotte andranno a pieno regime, la situazione tenderà a riequilibrarsi. Servirà comunque un po’ di coraggio in più».

La Germania è il grande accusatore ma anche il grande accusato.

«La Germania è un grande leader riluttante e intermittente. La sua leadership appare piena quando si tratta di ricordarci di fare i compiti a casa, ma risulta quasi assente nel delineare la strategia di crescita dell’Eurozona. Sbaglia chi critica Berlino, perché ci ricorda –a ragione – che un rapporto debito - Pil che corre verso il 135% è insostenibile. Sarebbe invece bene chiedere con forza alla Germania di dar conto di un decennio di crescita basata sulle proprie esportazioni, con poco riguardo a quelle degli altri Paesi Ue, e di politiche commerciali ed energetiche perseguite secondo un’ottica bilaterale e poco europeista».

Si sta però creando una faglia fra il Nord «buono» e il Sud «cattivo».

«Esistono differenze sul piano culturale, che si riflettono a livello politico ed economico. Il mandato di Schroeder prima e la Grosse Koalition poi sono stati vissuti dai tedeschi come momenti di vera unità nazionale. Questo ha permesso di vincere le resistenze sulla riforma della contrattazione sindacale – avvicinandola al livello delle imprese e calmierando i salari – e di rilanciare la produttività del lavoro. Ha certamente contribuito una predisposizione culturale a cedere sul piano individuale per il bene della collettività, accompagnata dalla promessa di averne un ritorno nuovamente sul piano individuale attraverso uno Stato federale più forte e con un sistema di Welfare efficiente. Un approccio culturalmente difficile da replicare nel Sud dell’Europa, a partire dal nostro Paese».

I partiti tradizionali (popolari, socialisti e liberaldemocratici) con questo voto si giocano tutto.

«Secondo i sondaggi, gli euroscettici dovrebbero assestarsi tra il 27 e il 30%. Al loro interno si trovano partiti che spaziano dal populismo fine a se stesso a forme di nazionalismo acceso alla Le Pen. Difficile immaginare in che modo e su quali temi potranno trovare un accordo stabile. Il rischio è che la loro unità si esprima in un “no” ad oltranza. Di fronte a questa prospettiva, le pressioni per un’ulteriore convergenza tra popolari e socialisti saranno elevate».

A luglio inizia il semestre di presidenza italiana: quali dovrebbero essere le iniziative più opportune in chiave europeista e per alleviare le sofferenze sociali?

«La gente chiede un segnale forte sulla lotta alla disoccupazione, a partire da quella giovanile. L’Ue ha già avviato la Youth Employment Initiative, ma è difficile trovare qualcuno che ne sappia qualcosa. E a ragione. Si mobiliteranno risorse per 6 miliardi di euro, una briciola rispetto al necessario. D’altra parte con un bilancio europeo pari a circa l’1% del Pil dell’Ue, non si può fare molto altro. L’Eurozona dovrebbe potersi indebitare per creare occupazione e opportunità di crescita e fronteggiare choc che colpiscono, incolpevolmente, solo alcuni suoi membri».

Franco Cattaneo

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