domenica 25 agosto 2013

#Silvio, cessa quest'assurda commedia

Non esiste soluzione politica ai tribunali

Il dibattito politico-istituzionale si sta letteralmente avvitando su un'equazione –l'agibilità politica di Berlusconi come presupposto per la governabilità – del tutto falsa. È come tentare un'impossibile somma, ci insegnavano i maestri alle scuole elementari, mettendo insieme le pere e le mele. Proprio da considerazioni elementari occorre partire per vedere quale gigantesca impostura si nasconda dietro la furoreggiante campagna politica e mediatica che predica la necessità di una «soluzione politica» per la condanna all'ex premier, colpevole e condannato definitivamente per frode fiscale. L'origine dello stravolgimento dei fatti sta proprio nel punto di partenza della richiesta. Fino «a prova contraria», è il caso di dire, una condanna penale è una circostanza che nulla ha a che vedere con la politica, a meno che non si tratti di una condanna per reati politici (di per sé fuori questione in una democrazia). La realtà dei fatti mostra che Berlusconi si è reso colpevole di un reato grave e socialmente esecrabile – sottrarre al fisco 7,3 milioni di euro – in particolare per un imprenditore facoltosissimo. La pretesa di un salvacondotto politico per una condanna giudiziaria sta fuori dal perimetro logico, prima ancora che di quello etico e civile. La questione potrebbe essere, dunque, facilmente rubricata come mancanza di raziocinio o, al peggio, come disturbo psichico di chi la sostiene. Disgraziatamente non è così, perché le ragioni – quelle sì strettamente e direttamente politiche – che stanno alla base delle posizioni del Pdl tendono a stravolgere il rapporto tra legittimazione popolare e legittimità dello Stato di diritto. Giuliano Ferrara – allorché esulta perché, a suo dire, il presidente della Repubblica ha riconosciuto «l'eccezionalità» del caso Berlusconi – compie una duplice forzatura. Piega in modo improprio e fuorviante le sagge parole di Napolitano e, nel contempo, cerca di dar credito alla tesi che essere leader di un partito (per di più di un partito che ha un notevole consenso elettorale) configuri, per ciò stesso, un carattere di diversità rispetto ai cittadini normali. Sarebbe come dire che avere consenso elettorale definisce uno status di privilegio. L'esatto contrario non soltanto della nostra Costituzione e del principio basilare che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma del comune buon senso. In realtà, coloro che sono alla testa di formazioni politiche, ancor più se (come nel caso dell'ex premier) con un passato di responsabilità istituzionali di altissimo livello, dovrebbero ripudiare per principio ogni forma di protezione che non sia espressamente prevista dalle leggi. E magari, come si usava fare sino a qualche decennio fa, chiedere esplicitamente, in caso di vicende giudiziarie, di non valersi delle tutele previste per i parlamentari. A ben vedere, la bislacca tesi del consenso come fattore di garanzia «speciale» ha alla base un presupposto rischiosissimo per la democrazia, quello che la legittimazione popolare ottenuta attraverso il consenso elettorale sia fonte di una legittimità «speciale», che non conosce limiti e non deve essere sottoposta alle regole degli ordinamenti democratici. A voler prendere minimamente sul serio tale idea, si finisce per scivolare verso forme plebiscitarie di derivazione sudamericana che poco hanno in comune con le democrazie vere.

Stefano Sepe
L'Eco di Bergamo 25 08 2013

Nessun commento:

Posta un commento