È VENUTO IL MOMENTO
DI “ROTTAMARE” IL PD
ULTIMO BALUARDO
DEL VECCHIO SISTEMA
Sull’articolo 18 le componenti del Pd ostili a Renzi hanno tirato la corda ma non fino al punto di romperla. Tardi, ma appena in tempo, si sono accorte che a strappare gli avrebbero fatto un piacere grande come una casa. Ma cosa faranno di fronte alle prossime provocazioni – che, statene certi, arriveranno presto e ancora più forti – del premier? Se, per esempio, il governo proponesse l’invio di un paio di Tornado a far la guerra all’Isis, resisterebbero alla tentazione di far scoppiare una rissa parlamentare che potrebbe anche avere come esito quello che stavolta è stato evitato?
A noi i partiti liquidi non piacciono, ma veder liquefare il Pd ci piace, e molto. Ma come, si dirà, siete contro i “non partiti” e poi volete che si dissolva l’unico soggetto politico che ha le caratteristiche del partito di massa, o comunque che ne ha conservato le sembianze? No, non c’è contraddizione. Intanto perché il Pd partito vero non lo è mai stato. Ricordate il momento della fondazione nell’ottobre del 2007? Veltroni fu eletto segretario non dal congresso ma dall’assemblea costituente del Pd, un organismo, composto da 2.858 persone, figlio delle nomenclature di Ds e Margherita. E sapete quando si tenne la prima assise congressuale, chiamata chissà perché “convenzione”? Due anni dopo, l’11 ottobre 2009, quando Veltroni si era già dimesso, sostituito da Franceschini, e il governo Prodi era caduto. Nel frattempo hanno inventato le primarie aperte a chiunque, che significa azzerare – anzi, mortificare – il ruolo dei tesserati. E un partito senza iscritti non è un partito. Non è un caso se in coincidenza con il quasi 41% delle europee, cioè il miglior risultato elettorale mai conseguito dalla sinistra (pur in percentuale e non in numero assoluto di voti), si registra il numero minimo di aderenti (100 mila contro il mezzo milione della segreteria Bersani).
Il secondo motivo per cui siamo spettatori plaudenti della parabola “morente” del Pd – sì, è una parola forte, ma la usiamo a ragion veduta – è perché esso contiene ancora tutte le ambiguità insite nel claudicante processo di trasformazione del Pci – che non ha mai metabolizzato fino in fondo il comunismo, tant’è che dovette aspettarne la formale caduta a Berlino come a Mosca per distaccarsene – cui si sono aggiunte le fragilità culturali e politiche della sinistra cattolica e la marginalità delle componenti laiche. Chiudere con il passato in modo definitivo, dunque, gioverebbe alla stessa sinistra, che potrebbe rinascere su basi più moderne.
Infine c’è un terzo motivo per cui guardiamo a quel che accade dentro il Pd con la speranza di chi avendo come propria ragione sociale la nascita della Terza Repubblica, auspica che si chiuda definitivamente la sciagurata stagione politica apertasi nel 1994. Suo malgrado, Renzi ha il merito di aver sepolto il bipolarismo bastardo su cui si è retto il gioco politico di questi vent’anni e a cui gli italiani hanno guardato – sbagliando – come al salvifico sistema che avrebbe rilanciato il Paese debellando la corruzione. Come sia andata, oggi non c’è bisogno di dirlo. Ora, l’irruzione sulla scena di Renzi, pur tra mille contraddizioni, ha consentito di archiviare entrambi i poli: il centro-destra si è liquefatto, del centro-sinistra è rimasto solo il Pd, che a sua volta si sta liquefacendo. E tutto questo è un bene, perché prima consegniamo alla storia (si fa per dire) la Seconda Repubblica e meglio faremo nel comunque difficile compito di uscire dal declino e far rinascere il Paese. Da questo punto di vista, Berlusconi non è più e mai più sarà un problema. Anche perché sembra essere tornato all’idea iniziale di quando, nel 1993, architettò la sua “discesa in politica” e certo non si attendeva il successo e le responsabilità del 1994: a lui basta un manipolo di parlamentari che gli consentano di tutelare se stesso e i propri interessi. Diverso è invece il Pd, che pur avendolo eletto segretario considera Renzi un corpo estraneo e ha una gran voglia di espellerlo per poter tornare come prima. Ma i rapporti di forza sono rovesciati, è Renzi ad avere il coltello dalla parte del manico. Ed è bene che lo usi come un macete. Anche perché non riuscirà mai a farlo suo, il Pd. E quindi tanto vale che lo “superi”. Come questo avverrà è dettaglio di cronaca, che sia nelle cose crediamo non ci siano più dubbi.
Fin dal primo momento, abbiamo detto che Renzi ci sembrava forte nella parte destruens e debole in quella costruens. Dunque non ci aspettiamo che sia lui – se poi invece lo fosse, tanto di guadagnato – l’architetto della Terza Repubblica, cioè di un nuovo ordine politico e di più moderni assetti istituzionali. Tant’è vero che quando si è mosso su questi terreni, dalla legge elettorale fino alla boiata della riforma del Senato, lo ha fatto molto maldestramente. Ma ci aspettiamo invece che sia pienamente capace di dare sepoltura al vecchio sistema. Sì, certo, avendola presa, quest’opera di rottamazione, prima di tutto dal lato delle persone, e con modi spicci, un po’ è sgradevole. Ma, si sa, la politica non è un “tea delle cinque”. Dunque, il rottamatore vada fino in fondo. Poi ne riparliamo.
Enrico Cisnetto
Terza Repubblica
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