martedì 30 luglio 2013

Fear and Desire: la #guerra di #Kubrick

Ho visto Fear and Desire, opera prima di Stanley Kubrick (1953) restaurata dalla Library of Congress e proiettata in questi giorni al cinema. Poco più di un saggio o tesi di laurea di uno studente di arti cinematografiche, così pensò l'autore che non volle mai valorizzare la pellicola, anzi la semiripudiò. E in effetti la prova è acerba, la mano ancora incerta, lo svolgimento del plot troppo lento, come risentisse della lezione dei drammi didattici di Brecht.

Il tema del film è la guerra, raccontata attraverso la storia dell'equipaggio di un aereo caduto 6 miglia entro le linee nemiche. Cosa colpisce di Fear and Desire? L'uso ossessivo dei campi e controcampi nei primi piani, che risente di Ejzenstein e Hitchcock. La scena espressionista (influenzata dal maestro della Corazzata Potjomkin) del sangue dei nemici che gocciola nel piatto di spezzatino che stavano mangiando quando vengono uccisi. Ma sopratutto la concezione della guerra (o forse la vita?) come favola narrata da un idiota, tratta dalla Tempesta di Shakespeare che non a caso viene citata dal più folle dei soldati del gruppo.

Qui si ritrova nientemeno che il tema della seconda parte di Full Metal Jacket (film di Kubrick uscito nel 1987), la totale autoreferenzialità e demenza mortifera della guerra, un mondo a parte dove l'uomo da essere senziente  viene degradato ad ingranaggio del caos e strumento della morte.

E questa visione, già così chiaramente resa in un film per quanto acerbo e non all'altezza della perfezione kubrickiana, vale il prezzo del biglietto.

martedì 23 luglio 2013

#governo, incentivi e stimolo alla #ripresa

L'economista prof: Tancredi Bianchi
[photo: L'Eco di Bergamo]

Se il governo potesse guidare serenamente il Paese, potrebbe non tenere in prima considerazione preoccupazioni elettorali e di partito e, anziché ricercare gli incentivi della ripresa in Imu e Iva, stimolerebbe le iniziative di investimenti, vera fonte di nuova occupazione, con la moderata tassazione, o anche la temporanea esenzione, del «nuovo». Ossia di quanto giova per cambiare o implementare l’esistente. Val dire, seguirebbe la strada più antica del buon governo dell’economia: una politica perpremiare chi vuole intraprendere e cooperare all’impresa. L’Italia si salvò così tante volte: con le esenzioni venticinquennali sui nuovi immobili; con
l’esenzione decennale dei redditi delle nuove imprese; con gli ammortamenti accelerati per i nuovi investimenti... Le agevolazioni tributarie per il
«nuovo» riguardano appunto il futuro, che tutti desideriamo migliore del presente. Non minacciano di porre in disordine i conti pubblici. Attendono nuove entrate dalla produzione di nuova ricchezza e da una società nuova che ha ritrovato la speranza.

Tancredi Bianchi, L'Eco di Bergamo 24/07/13

venerdì 19 luglio 2013

ascesa e caduta della #lega nord


Pontida: l'auto-mito fondativo della Lega Nord
[photo: iltafano]
LEGA ADDIO

INESORABILE
DECLINO
DI UN’IDEA

di  GIOVANNI COMINELLI
L'Eco di Bergamo, 19/07/13

Al cospetto del dramma del declino politico-culturale della Lega, serve il consiglio di Baruch Spinoza, filosofo ebreo olandese del ’600: nec ridere, nec lugere, sed intelligere. Né ridere, né piangere, ma capire le ragioni. La prima è stata l’incapacità della Lega di pensare l’Italia intera, mentre si proponeva come paladina degli interessi del Nord. La seconda: aver praticato un modello carismatico illiberale di organizzazione politica. Quando, tra gli anni ’70 e ’80, i ceti produttivi conquistarono la percezione che il Nord veniva saccheggiato dallo Stato

centrale, il quale poi distribuiva con criteri politico-clientelari lungo i canali del Centro-Sud, Bossi investì su quella presa di coscienza, che era e resta vera. Mentre l’intero sistema politico rappresentava la Questione meridionale, Bossi costruì unmovimento per la Questione settentrionale.

Quei ceti continuarono, tuttavia, a turarsi il naso e a votare Dc, che li proteggeva dal «comunismo». La caduta del quale nel novembre del 1989 li liberò. Nel giro di pochi anni Questione settentrionale, Tangentopoli, movimento referendario e Questione morale costituirono un terreno fecondo per la Lega. Ma essa non riuscì a fare il salto politico-culturale necessario per proporre all’intero Paese un nuovo progetto storico, politico e istituzionale. Gianfranco Miglio ci aveva provato con la sua ipotesi di tre macro-regioni e un nuovo assetto politico-istituzionale presidenziale e federalista «alla Svizzera». Venne liquidato con disprezzo.

Mentre sul piano progettuale Bossi oscillò vistosamente tra «secessione» e «federalismo», su
quello politico scelse l’alleanza con Berlusconi, che a sua volta teneva all’alleanza con Fini. Il senatùr
si illuse che bastasse, ai fini della difesa degli interessi del Nord, far valere i rapporti di forza all’interno della coalizione. Così il vino del federalismo, mischiato con padanismo, celtismo e localismo da
«piccola patria», etnofobia ai limiti del razzismo, arrivò annacquato all’appuntamento del 2001,
quando Berlusconi, Fini e Bossi conquistarono il governo.

Berlusconi ha distrutto lentamente Fini e Bossi, mentre i ministri di quest’ultimo rimanevano
impaniati nelle trame della politica nazionale e urtavano impotenti contro il muro di una burocrazia amministrativa statale onnipotente, assai più solido di quello di Berlino. La «ridotta del Nord» a
poco a poco si è ristretta alle valli e ha cominciato a disfarsi.

E qui siamo alla seconda ragione della crisi, che riguarda il modello di organizzazione politica.
Quello carismatico illiberale, tipico degli anni ’30, adottato da Bossi, deve fare i conti, oggi, nell’epoca della comunicazione globale, con la domanda di trasparenza quotidiana. Vedasi alla voce Di Pietro
e Grillo. Il carisma ha bisogno di successi qui e ora per durare. Non si sono visti. Ed è esposto allo
sguardo severo dei cittadini, che osservano quotidianamente i movimenti dei politici come quelli
dei pesci in un acquario. Nessun cerchio ristretto, oramai, è magico. Il caso del tesoriere infedele Belsito è nato su questo terreno.

Per uscire dalla palude, la Lega è ora tentata di appoggiarsi alle correnti pre-moderne, etnofobe
e/o razziste, che sono attive, ma minoritarie in tutta Europa. Così facendo tradisce anche la propria
ispirazione originaria. Perché il declino della Lega è un dramma? Perché il suo fallimento si porta via
illusioni, speranze e militanza di qualche milione di cittadini. E ora? L’Italia avrebbe bisogno di un
federalismo cattolico, liberale e democratico.

Ma i partiti democratici non sono federalisti, e quelli federalisti non sono democratici. Non è un dramma?

sabato 13 luglio 2013

affaire #shalabayeva: finalmente l' #italia non è più mammona!

alma shalabayeva: il passaporto kazako
[photo: ansa]
più particolari apprendo sulla vicenda shalabayeva, più sono fiero di essere italiano. la storia è complicata e semplice ad un tempo. la signora è la moglie di mukhtar ablyazov, ex ministro, ex banchiere e massimo oppositore del regime kazako. come spesso accade in questi casi, il dittatore che governa il paese ha accusato il dissidente di malversazioni finanziarie: vere, false, verosimili? non sappiamo, anche se sarebbe ingenuo spacciare per una vergine dai candidi manti un ex oligarca di uno stato ex sovietico. ma comunque molto comode, queste accuse, per poter sbattere in galera un oppositore attivo dal fronte internazionale e finanziariamente spregiudicato come ablyazov. il nostro dissidente quindi è ricercato dall'interpol, salvo che londra gli dà asilo politico e non accetta questo mandato di cattura.

ed ecco entrare in gioco il nostro strano bel paese. la moglie di ablyazov, invece di restare col marito a londra, per qualche motivo ha pensato bene di stabilirsi con la figlia di sei anni a roma in una villa di casalpalocco. dato che nella vicenda scopriamo che la signora ha una tremenda paura di venire uccisa, il motivo potrebbe essere semplicemente quello di dividere la famiglia per mettere in sicurezza moglie e figlioletta. a fine maggio l'ambasciata kazaka  segnala prima alla questura di roma e poi al ministero degli interni la presenza del dissidente nella villa di casalpalocco, e chiede di arrestarlo in base al mandato di cattura dell'interpol. la notte tra il 28 e il 29 maggio la polizia organizza quindi una battuta di caccia grossa, dispiegando ben 50 uomini della digos che cingono d'assedio e poi espugnano la villetta. del dissidente nessuna traccia, quindi i nostri si concentrano su due succulente prede: la moglie e la figlia.

la signora, in preda al panico, commette l'errore che le sarà fatale: temendo che i 50 in borghese dell'irruzione in casa sua non siano poliziotti ma un commando di sicari, per paura di essere riconosciuta come la moglie del dissidente esibisce un passaporto della repubblica centrafricana. una kazaka, bianca e con gli occhi a mandorla, cittadina africana?  sicuramente deve trattarsi di un passaporto falso! sulla base di questo pilastro logico la questura di roma dispone per l'espulsione della shalabayeva e figlia. il tutto  senza fare controlli sulla autenticità del passaporto centrafricano, come richiede disperatamente la signora, e senza considerare l'altro passaporto, quello kazako, e il permesso di soggiorno italiano della donna. e questo nonostante la stessa, una volta in questura, racconti al dirigente del servizio immigrazione chi è suo marito e perché lei si trova in italia con la figlia.

quando viene portata al centro di identificazione ed espulsione, separata dalla figlia, la shalabayeva capisce cosa sta succedendo e comincia a chiedere asilo politico in russo e inglese, non sapendo l'italiano. ma nessuno raccoglie e formalizza la sua richiesta. tramite un'altra figlia ventiquattrenne, residente in svizzera, riesce ad assumere un avvocato del foro di roma, che però non ha accesso alle carte.

nel frattempo l'ambasciata kazaka, zitta zitta, noleggia un jet privato e lo parcheggia a ciampino. e in poco più di 48 ore, nella tarda mattinata del 31 maggio,  shalabayeva e figlia vengono accolte dal console kazako sull'aereo che le riporta in patria. quel pomeriggio l'avvocato attendeva l'orario di apertura del CIE per formalizzare la richiesta di asilo politico: troppo tardi, beffato da un'espulsione su commissione, pilotata a tempo di record da una burocrazia poliziesca  insolitamente efficientissima e solerte.

come è finita la storia? il passaporto centrafricano della signora era regolarissimo, tanto che poi il premier letta due mesi dopo è costretto a farne revocare l'espulsione. il che ha un sapore ancor più beffardo, dato che nel frattempo la shalabayeva è inchiodata in kazakistan: non è agli arresti ma non può lasciare la capitale, in quanto prontamente indagata per tangenti atte a procurarsi il passaporto centrafricano. il marito dissidente da londra ringrazia letta, pur manifestando il fondatissimo timore che quando i riflettori mediatici si spegneranno la moglie finisca in carcere e la bambina in brefotrofio. ad ogni modo le due donne potranno in qualsiasi momento venire usate come arma di ricatto contro di lui.

a roma i ministri di interni ed esteri si palleggiano il solito scaricabarile, da cui emerge persino un fax inviato dalla questura romana alla farnesina per chiedere informazioni sulla shalabayeva prima dell'espulsione.i media ricordano che il dittatore kazako nursultan nazarbayev, oltre a vendere gas e petrolio anche all'italia, è amico personale di silvio berlusconi, capo partito (anzi capo tout court) del ministro degli interni angelino alfano. anzi qualche complottista sospetta addirittura che silvio sia socio occulto di nazarbayev nell'affare del petrolio e del gas. come che sia, salta fuori che l'ambasciatore kazako ha parlato, nelle ore cruciali precedenti l'espulsione, con il capo di gabinetto di alfano e con i massimi vertici della questura romana. quindi non solo la farnesina ma pure il viminale era informato sulla vicenda. come prevedibile ora a volare saranno gli stracci, ovvero i vertici della questura romana e forse qualche alto funzionario ministeriale, ma senza toccare il livello politico governativo.

i ministri degli interni e degli esteri, alfano e bonino, giurano e spergiurano la loro ignoranza sulla vicenda, quasi non fosse una toppa peggiore del buco. i media, la politica e la pubblica opinione si chiedono se per caso non si sia trattato di una extraordinary rendition stile cia camuffata da procedura burocratica.

io invece, come dicevo all'inizio, sono fiero. orgoglioso di appartenere ad un paese finalmente libero dal giogo del suo retaggio culturale familista e mammone, al punto da rispedire una mamma e la figlia seienne tra le fauci di un dittatore che gode fama internazionale di torturatore.

così si fa. anzi la prossima volta torturiamole noi a roma per procura: famo prima.

domenica 7 luglio 2013

la #spendingreview e l'estinzione dei burosauri

Il mitico TPS aveva visto lungo
[photo: Ilpeggio]

UN SOLO OBIETTIVO RIDURRE LA SPESA

di  PINO ROMA
L'Eco di Bergamo 7/7/13

l livello raggiunto dal debito pubblico – oltre
2.000 miliardi di euro –
ci obbliga ad emettere
ogni anno 400 miliardi di titoli e a pagare 80 miliardi di
interessi. Tale obbligo è la
causa principale del permanere di una condizione di oppressione fiscale per le imprese, i lavoratori e le famiglie, ostacola enormemente la crescita e ci espone alla speculazione internazionale.

L’uscita dall’euro non servirebbe certamente ad alleggerirci da quest’obbligo, né sarebbe una soluzione salvifica quella di superare il principio del pareggio di bilancio. In presenza di un debito così elevato,
l’obiettivo primario rimane quello di ridurre sensibilmente la spesa, in particolare quella improduttiva, per rendere sostenibile il debito ed evitare che si avvii una spirale pericolosa dove a maggior debito corrispondono maggiori tensioni sul mercato e, soprattutto, minore crescita. Questo obiettivo fu posto in primo piano dal compianto ministro del Tesoro Tommaso Padoa Schioppa, che si propose di sostituire al sistema dei tagli lineari il metodo della spending review, con l’intento di realizzare tagli incisivi ma selettivi della spesa. Ciò non gli fu possibile per la breve durata di quel governo. Il ministro del Tesoro che gli successe, Giulio Tremonti, continuò nella prassi di contenere il debito attraverso tagli lineari, certamente di più agevole realizzazione anche se foriera di indubbie iniquità e di risultati modesti.

Con l’avvento del governo Monti, è stato approvato dal Parlamento un emendamento che ha fissato, finalmente, come obiettivo prioritario la realizzazione della spending review. Il compito è stato affidato ad un’apposita Commissione, presieduta da Enrico Bondi, che, fortemente ostacolata dalla burocrazia ministeriale, ha prodotto risultati modesti, realizzando risparmi di spesa per soli 5 miliardi di euro. Il neo ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, collega per molti anni in Banca d’Italia di Padoa Schioppa, ha riproposto, in una recente intervista al Corriere della Sera, l’esigenza imprescindibile di una nuova energica azione di spending review. A sollecitargliela sono: gli impegni presi per i pagamenti alle imprese da parte della Pubblica amministrazione; gli incentivi per le ristrutturazioni; la rata Imu non pagata; il mancato
aumento dell’Iva; i fondi per la Cassa integrazione in deroga e quelli anticipati alle Regioni; lo sblocco dei versamenti per i vari terremoti. Non solo, perché il ministro ha ancora affermato: «Vogliamo
rilanciare l’economia riducendo le tasse sul lavoro e sulle imprese. Non possiamo farlo aumentando
il debito, quindi dobbiamo ridurre la spesa corrente. Riconvocheremo il comitato interministeriale
per il controllo della spesa e avremo un commissario straordinario».

È certamente questa l’unica strada per fare uscire il Paese da una situazione che apre scenari sempre più drammatici. Ciò che c’è da fare lo sappiamo da tempo. Ci sono enti e uffici inutili da sopprimere e altri da rafforzare. Ci sono imprese pubbliche da privatizzare, ci sono spese ministeriali da
tagliare consistentemente e dotazioni ministeriali da rifinanziare, come quelle per l’istruzione, perché funzionali a generare sviluppo. Ci sono centri di ricerca da sostenere e molti altri da eliminare.
Ci sono università da chiudere ed alcune da potenziare. Lo stesso vale per tribunali ed ospedali, alcuni dei quali anche pericolosi per la salute dei cittadini. Occorre ridurre i trasferimenti a quegli enti (Regioni, Province, Comuni) che dissipano denaro pubblico, ma anche operare aumenti nelle dotazioni degli enti virtuosi.

Rispetto a tutto ciò, le continue contrapposizioni che ostacolano l’azione dell’attuale governo, che,
nonostante la larga maggioranza di cui dispone, vive una situazione di evidente precarietà, non lasciano spazio a ottimismi. Forse, il segnale più confortante registrato nei mesi scorsi è rappresentato dalla volontà del governo di rivedere e porre in discussione i rapporti tra politica e burocrazia.
Negli ultimi anni c’è stata una crescita abnorme del potere di strutture e di personaggi dell’alta burocrazia che sono nati nell’ombra della politica e hanno poi finito per condizionarla. Nella giusta direzione, quindi, va la decisione del governo di sostituire alla guida della Ragioneria Generale dello Stato Mario Canzio - definito il «signor no» e ritenuto l’unico vero interprete dei conti dello Stato - con Daniele Franco, proveniente dall’Ufficio Studi della Banca d’Italia. Sarebbe opportuno che a questa decisione seguisse anche l’avvicendamento dei massimi burocrati tra i vari ministeri, in modo da evitare l’accumulo di eccessivi poteri personali.

I responsabili politici dovrebbero ormai essersi resi conto che la gran parte dei cittadini è ben consapevole della necessità di scelte radicali e razionali in ogni comparto della spesa pubblica e sa bene che
dalla situazione di grave crisi che stiamo vivendo si può uscire solo con scelte coraggiose e ancorate
solo all’interesse generale.

martedì 2 luglio 2013

#spendingreview o spending deppiù?


L’intervista
Stefano Visalli
[photo: officinedemocratiche]
STEFANO VISALLI
analista di problemi finanziari

«La spesa si riduce
eliminando gli sprechi
Ma servono 5 anni»

Caccia alle risorse finanziarie per coprire i «buchi» che si creano nei conti pubblici magari perché si riducono voci di entrata come Imu e Iva.
È una spirale che va bloccata.
Basta con gli interventi sporadici o d’emergenza: serve, invece, un piano di riorganizzazione
della spesa pubblica a medio raggio, calibrato su un arco di almeno cinque anni, altrimenti la
toppa rischia di essere peggio del buco. È questa l’analisi di Stefano Visalli, analista di McKinsey
& Company, nota società di consulenza per la gestione di problemi finanziari e societari. Vissalli ha, tra l’altro, fatto parte della Commissione ministeriale per la revisione della spesa tra il
2007 e il 2008 e di fronte alle polemiche di questi giorni taglia corto:
«I centri di spesa – spiega – sono tanti e ramificati in ogni
livello dell’amministrazione pubblica. Basterebbe razionalizzarli, senza intaccare la qualità
dei servizi, per avere a disposizione trenta miliardi l’anno di
nuove risorse a disposizione dello Stato. Ma invece si preferisce
correre sempre dietro all’emergenza. Per non cambiare davvero le cose. L’emergenza rischia
di essere un alibi».

Spending revew, tagli alla spesa,
sua riqualificazione. Come e dove
trovare i soldi?
«Prima di tutto una doverosa premessa. Quello che è emerso
con estrema chiarezza dal lavoro fatto, a tale scopo, sia dalla
Commissione istituita dal compianto ministro Padoa Schioppa nel 2007 sia da quello svolto,
più recentemente, dai tecnici incaricati dal ministro Giarda è
che lo spazio per riorganizzare la spesa è uno spazio molto importante. Lo confermano anche le analisi
di McKinsey portate a termine in altri Paesi».

«Importante» nel senso
del valore economico?
«Sì. Non è difficile immaginare che questa riorganizzazione potrebbe liberare risorse per una trentina di
miliardi l’anno».

Due punti di Pil?
«Esatto ma il problema è che riorganizzare la spesa pubblica
vuol dire ristrutturare le modalità di erogazione dei servizi. Attenzione: non meno servizi ma
rivedere come questi vengono offerti».

Possiamo fare qualche esempio?
«Prendiamo il caso delle Prefetture, ma questo potrebbe valere
per qualsiasi altra "agenzia" erogatrice di servizi. Noi oggi abbiamo una Prefettura in ciascuna
provincia e il personale che vi lavora è più o meno indipendente dal numero degli utenti serviti.
Anche le cose che fa ogni Prefettura sono, più o meno, indipendenti dalla tipologia della provincia in cui si trovano ad operare questi uffici. Se uno ripensasse alla loro organizzazione, si
dovrebbe chiedere: "Ma quali sono le cose che effettivamente servono
nella mia provincia e quali, invece, vanno studiate per la popolazione di Roma?". Se
si ragionasse così ci accorgeremmo facilmente che un buon 30% delle attività svolte potrebbe essere razionalizzato. Una razionalizzazione che, col trascorre del tempo,
porta a risparmi ed economie di scala».

Il problema, allora, è come condurre in porto questa riorganizzazione?
«Certo, non si può procedere per decreto. Bisogna entrare nel
merito, rivedere la situazione, ristrutturare e riorganizzare, esattamente come farebbe una qualsiasi azienda. Gli spazi per operare e risparmiare ci sono. Peccato che questi stessi spazi non
possono essere usati per coprire l’Imu o l’Iva».

Perché?
«Perché bisogna ragionare in una prospettiva di cinque anni
con processi di riorganizzazione calibrati per questo arco temporale. Fatto questo, alla fine ci
si ritroverà con una trentina di miliardi di spesa in meno che
potranno essere reinvestiti proprio nei servizi. Ragionare sull’immediato, con la caccia alle
coperture di Iva e Imu, non mi sembra serio. Se lo si fa con questa enfasi e insistenza è solo perché la politica, in realtà, non vuol cambiar niente».

Forse l’emergenza incalza?
«Non credo che sia così. Penso invece che sia più difficile fare le
cose di cui ho parlato prima piuttosto che operare con i soliti tagli lineari a tutti gli enti statali. Verificare nel dettaglio quando, dove e come si spendono i soldi dei cittadini è una strada più ardua. Tocca interessi
concreti. Invece tagliare un po’ a tutti si tramuta nella solita, neutra, operazione contabile.
Quindi si preferisce percorrere la via più facile. Quella che, di fatto, non rompe gli equilibri e
che soprattutto non si fa nemici».■

Daniele Vaninetti
L'Eco di Bergamo, 03/07/13